Era il 1990 quando grazie all’associazione Naga di Milano prendeva vita il primo corso per mediatori linguistici in Italia. Il contesto geopolitico era in fase di ridefinizione – con l’allargamento a Est dell’Unione Europea e il progressivo arrivo di migranti sulle coste italiane – ed emergeva una nuova esigenza sociale a cui rispondere: integrare diverse tradizioni e culture. Non era la prima volta in cui in Italia si affrontava il tema, ma è significativo notare che la figura del mediatore linguistico nasce in risposta ad un’esigenza concreta della società civile.

L’integrazione di popoli con culture differenti non può esserci senza una propria attività di mediazione tra le parti. Senza mediazione verrebbe dato troppo spazio ai conflitti e quindi alla frammentazione della collettività in microcomunità.
Viviamo in una società complessa, in continua trasformazione a livello sociale, politico, economico e siamo sfidati ad adattarci, spesso anche a raggiungere veri e propri accordi tra le parti, frutto di politiche economico-commerciali oppure alimentati da un’esigenza di integrazione.

La sfida è sempre immaginare una nuova società e nello scenario attuale l’arte della mediazione politica avrà un ruolo fondamentale in tutto il mondo come in Italia.

Lo scorso 25 settembre si è registrata un’affluenza alle urne del 63% degli aventi diritto al voto, un calo del 9% rispetto alle precedenti elezioni del 2018: è il maggior calo di partecipazione elettorale della storia repubblicana e tra i dieci più significativi, a livello europeo, dalla fine del secondo dopo guerra. La disaffezione verso le istituzioni e soprattutto verso i partiti politici – organi preposti alla rappresentanza degli interessi dei cittadini – non è una novità del 2022. È dalla crisi economico–finanziaria del 2008 che in Europa, e non solo, hanno preso piede movimenti e partiti politici (il più delle volte nazionalisti e populisti) che hanno fatto dell’indignazione la loro agenda politica, senza dare risposte e soluzioni di lungo periodo. È accaduto in Italia nelle elezioni del 2018, quanto il Movimento 5 Stelle è risultato primo partito con il 33%. Sulla stessa linea la vittoria di Fratelli d’Italia il 25 settembre, una vittoria che ha beneficiato di lunghi anni di opposizione, anche solitaria.

La via è ripartire dalla mediazione come concetto politico. La mediazione, assieme al compromesso – che a dispetto del lessico populista non è “inciucio” – costituisce una categoria specifica dell’agire politico perché rappresenta il punto comune di interessi differenti per un bene più alto, quello della collettività. Così facendo si costruisce il bene comune. E che cos’è la politica se non l’arte di rappresentare interessi e gruppi sociali con storie e culture diverse che però nelle sedi preposte (consigli comunali, regionali, assemblee parlamentari) trovano una sintesi in avanti a favore della collettività?

La centralità dell’arte della mediazione si riversa, in forma attiva e passiva, in tre soggetti fondanti la forma di governo parlamentare: i partiti politici, il Parlamento e il Governo. I partiti politici devono tornare a rappresentare il corpo elettorale attraverso una mediazione vera nelle sedi istituzionali, anche per far fronte alla bassa affluenza elettorale e la conseguente volatilità del voto. Tutto questo ha uno stretto collegamento con la formazione della classe dirigente nei partiti e con la gestione delle responsabilità che i partiti sono comunque chiamati a coordinare nelle strutture preposte, tra tutte il Parlamento e il Governo.

Una risorgere della cultura della mediazione, per anni denigrata, favorirebbe il rispetto della pluralità e delle minoranze all’interno del dibattito politico, a scapito di una “cultura della maggioranza” la cui tenuta, altrimenti, rischia di diventare l’obiettivo principale dell’esecutivo stesso.