di Ciro Cafiero*
È bastato un niente per sentirci fragili e vedere crollare la fede in un modello di lavoro che doveva solo crescere. Ma quello che stiamo vivendo ai tempi del “Coronavirus”, sembra la narrazione della peste di Firenze del 1348 o quelle di Milano del 1630, narrate dal Boccaccio e dal Manzoni nelle loro opere più famose.
Questa emergenza, però, può anche rivelarsi un “momento favorevole” per fare discernimento e rifocalizzare le grandi domande che rendono umana la vita, come per esempio quelle legate al lavoro. Dall’angolatura del giuslavorista “di campo”, ad esempio, queste settimane hanno accelerato la riflessione sul nuovo erapporto tra tecnologia e mercato del lavoro in due ambiti.
Il primo insegnamento che sta emergendo dice che la tecnologia, è uno strumento in grado di comporre lo scontro tra due diritti essenziali sanciti dalla Costituzione. Quello al lavoro (negli articoli 1,3,4, 35 e 36 della Costituzione) e quello alla salute (art. 32 Cost.). L’ultimo terreno che li ha visti scontrarsi è sul caso Ilva. E così, lo smart workingha ha espresso tutte le sue potenzialità, dando la possibilità di lavorare da remoto come per esempio nella propria abitazione. Sta impedendo la paralisi di alcune funzioni all’interno delle aziende, già colpite dalla crisi dei consumi a causa dell’emergenza in atto, inoltre sta arginando la diffusione del contagio negli uffici. In tal senso, ha deposto l’articolo 4 del DPCM del 2 marzo 2020. Indubbi i benefici anche per la “salute” dell’ambiente grazie alla ridotta circolazione stradale che ne è derivata.
Soprattutto, lo smart working, è un antidoto contro la paura incontrollata di cui il Paese, è caduta vittima in cui “l’altro”, incluso il collega con cui si è sempre lavorato, rischia di essere trasformarsi da “prossimo” in “untore”.
Il lavoro resta capace, in qualsiasi condizione, di tracciare orizzonti di senso, di stimolare lo sviluppo della persona umana, di candidarsi a “luogo”, anche solo virtuale, in cui fioriscono empatia e relazioni, in una parola sola, di “contagiare” di quella fiducia nel domani che, nella tradizione cristiana, lo ha reso opera di con–creazione del disegno divino sull’uomo.
Il secondo insegnamento suggerito è considerare la tecnologia capace di comporre anche i conflitti tra le norme sul lavoro e dunque impasse che, nei momenti di emergenza, rischiano di generare gravi conseguenze.
Ad esempio, la lotta al virus, nel segno della disciplina del testo unico sulla sicurezza dei lavoratori (d.lgs. n. 81 del 2008), ha imposto alle imprese di verificare lo stato di salute dei lavoratori adibiti alle catene produttive. Per contro, la normativa sulla privacy (d.gs. 196 del 2003 come modificato da Reg. U.E. 679 del 2016) e quella sugli accertamenti sanitari (art. 6 della legge n. 300 del 1970) hanno ostacolato tale operazione perché prevedono il divieto il trattamento dei dati sanitari dei dipendenti. Su questo punto gli interventi del Governo non hanno aiutato molto perché non hanno previsto deroghe risolutive.
Ebbene, dispositivi di protezione individuale dotati di algoritmi intelligenti, anche a baseblockchain, sono in grado tanto di registrare gli indici di salute di ogni singolo lavoratore quanto di garantirne un trattamento nel rispetto dei principi di necessità, pertinenza, adeguatezza e non eccedenza, in una parola sola, di riservatezza.
Così, la tecnologia, più che un “virus” in grado di distruggere il mercato del lavoro, va considerata come il “vaccino” capace di rigenerarlo in situazioni di crisi, come in quelle di “normalità stagnante” in cui il Paese è caduto. La cosa più difficile è ricordarlo quando l’emergenza sarà cessata, per ottenere, anche grazie ad essa, un rilancio graduale ma straordinario. Il “giorno dopo” chiede sempre un’apertura al cambiamento contro i dogmatismi. Perché la realtà è superiore all’idea. È quello che ci insegnano gli antichi: ex malo bonum. Lo dobbiamo sperare e realizzare.
*avvocato giuslavorista, Presidente di Comunità di Connessioni
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