Il testo è una riscrittura, fatta dalla redazione, dell’intervento tenuto da David Sassoli alla scuola di formazione politica “Connessioni – pensare politicamente” il 12 maggio 2018. Con queste parole vogliamo regalare a tutti le riflessioni consegnateci dal presidente Sassoli, per diffondere la sua eredità ideale, affinché la sua testimonianza umana e politica continui ad accompagnarci e portare frutto.
Grazie per le belle parole. È vero quanto ci ha detto padre Occhetta: dobbiamo cercare di mettere al centro qualcosa, perché se non mettiamo al centro qualcosa, la politica, ma non solo, fa fatica a trovare delle priorità. Al centro deve esserci qualcosa. Non è un caso che la storia del nostro Paese, e di un particolare tipo di classe dirigente, abbia sempre cercato di mettere al centro delle cose importanti. Una di queste è stata l’Europa. L’Europa nasce da un’idea: una vocazione politica, ma anche religiosa. Protagonisti di questa grande avventura sono tutti cattolici: Spack, Monnet, De Gasperi. Avevano capito che al centro della contemporaneità serviva qualcosa altro, non solo il proprio paese. Naturalmente stiamo parlando di un laboratorio che comincia a riflettere su come organizzare questa Europa, su quali interessi tenerla insieme. Sono passati settant’anni e non è un percorso finito. Mettiamo a fuoco cosa può esserci utile in questo momento:
Geografia. Il filosofo francese Paul Valery, mentre l’Europa si incendia e la marcia nazista distrugge paesi e città, fa una sconsolata constatazione: «L’Europa diventerà quello che in realtà è, cioè un piccolo promontorio del continente asiatico?». Perché noi in realtà siamo questo. Siamo solo un promontorio del grande continente asiatico dove sono successe delle cose che altrove non sono successe. Per demografia, per clima, per tanti motivi e interessi. Siamo questo e non bisogna mai dimenticarselo perché la geografia ti dice dove stai.
Demografia. All’inizio del Novecento, l’Europa e gli Stati Uniti, cioè il Nord del mondo, erano il 21% della popolazione mondiale. Nel 2050, ci dicono le statistiche, l’Europa sarà l’8% della popolazione del mondo. È una curva verso il basso: prima 21% e, un secolo e mezzo dopo, l’8%. Questo promontorio non è più il centro del mondo. La demografia ci dice anche un’altra cosa, ci dice dove noi connetteremo il nostro destino, perché all’inizio del Novecento l’Africa era l’8% della popolazione del mondo e nel 2050 sarà il 17%. Sono due curve che si incrociano.
In questo promontorio in sessant’anni sono successe molte cose, alcune riguardano la Storia recente, altre quella passata. Per esempio, che 27 paesi smettessero di fare la guerra non è una banalità, perché in questo promontorio era sempre andata male. Che addirittura la costruzione di questa Unione Europea fosse vista da altri come una grande chance. Questa è la terza osservazione: noi siamo presi da noi stessi, ma dobbiamo cercare di guardarci con gli occhi degli altri. Siccome siamo geografia ma anche demografia, dobbiamo cercare di guardarci con gli occhi degli altri. E come ci vedono gli altri? Questa terza osservazione io penso debba essere sempre di fronte a noi, per qualsiasi cosa perché, se non vogliamo buttare via quello che abbiamo, dobbiamo capire come gli altri ci guardano. E come è che ci guardano?
Guardate il nostro dibattito pubblico e politico in Italia e in Europa non dà ragione all’osservazione di richieste di Europa che ci sono nel mondo. Basta girare nel Mediterraneo, ma se andiamo un po’ più in là, la richiesta è fortissima. Perché non è solo una ragione economica o politica, c’è una ragione più profonda: l’Europa può essere utile agli altri. In particolare modo in questo periodo storico, perché l’Europa non è una potenza. Perché l’Europa può mettersi nei panni di un cattivo colonialismo, che l’ha caratterizzata per troppo tempo, e porsi come una potenza tranquilla. Non è una banalità. Il fatto di essere guardati così aumenta le nostre responsabilità e le nostre chance. Di fare cosa? Di proporre non solo interessi, ma collaborazioni. In fondo voi, che siete ragazzi giovani che studiate qui o altrove, chiedetevelo: come siamo visti dagli altri? Questo ci consente un esame di coscienza, ma anche di non buttare via ciò che siamo.
Sono stato in Libano, la settimana scorsa, per un’esperienza che non avevo mai fatto in questi anni: quella dell’osservatore elettorale. Un’iniziativa importante, sui cui tanti paesi non solo in Europa scommettono da sempre con grande interesse perché è un modo per entrare nei meccanismi istituzionali, politici di un altro paese. Non siamo arbitri, siamo dei consiglieri su dei sistemi elettorali. Siamo chiamati dal paese stesso, non siamo degli invasori o degli arbitri non richiesti. È stata una bellissima esperienza: in Libano hanno appena cambiato il sistema elettorale, dal maggioritario sono passati al proporzionale, dopo 50 anni. In un paese molto complicato, perché partiti, religioni, etnie erano fino a ieri avversarie. Ma è una nazione che aspira, anche tramite le istituzioni, alla coesistenza, e per questo suddivide tante cariche tra gruppi e partiti. Cosa vien fuori se uno parla con tutto questo arcipelago di punti di vista? Che il sistema istituzionale, il sistema politico e il sistema economico possono migliorare se trovano un legame ancora più stretto con l’Europa. Io so che non è facile guardarci con gli occhi degli altri, ma dobbiamo farlo. Per esempio, dobbiamo farlo perché noi spesso ci dimentichiamo che questo esame di coscienza, se va in profondità, deve anche rimarginare delle ferite. Perché noi non siamo sempre stati buoni: quello che abbiamo lasciato, in questo secolo e mezzo, fuori dall’Europa spesso è la causa di quello che succede in tante zone del mondo, come è stato con il colonialismo, l’imperialismo, sono tutte cose che ci appartengono, perché all’inizio del ‘900 il 70/75% delle terre emerse era di paesi europei e non sempre abbiamo lasciato una bella eredità.
Dobbiamo avere presente queste ferite, per cercare di rimettere in ordine i dolori che quell’eredità ha provocato. Per esempio, noi abbiamo un dibattito pubblico su accoglienza, rifugiati, immigrazione, che è molto importante però nei confronti di una nazione come l’India un miliardo e duecentomila persone. Negli ultimi anni un 100 milioni di persone sono uscite dalla soglia di povertà, povertà assoluta (un dollaro, due dollari al giorno). Oggi tanti ragazzi studiano negli Stati Uniti e sono tra i migliori ingegneri, informatici etc. che sognano di tornare al loro paese e di far uscire altri 100 milioni di persone dalla soglia di povertà. Credo che questo sia un sentimento che non dobbiamo dimenticare e non dobbiamo far finta che non ci riguardi. Ecco perché, per esempio, una delle iniziative più importanti, dal mio punto di vista e che dobbiamo sviluppare ancora, è quella che l’Erasmus non sia un’iniziativa solo per accompagnare voi, ma che sia un’iniziativa per accompagnare anche chi non è figlio nostro o amico nostro. Perché quella questione di come si esce dal sottosviluppo dobbiamo sempre tenerla in mente, perché è una questione che ci riguarda e riguarda la nostra storia. Quei ragazzi indiani che lavorano nelle università americane, a Singapore o in Europa, dobbiamo accompagnarli perché quella scommessa deve essere la nostra scommessa. Noi dobbiamo guardarci con gli occhi dei problemi degli altri. Allora, per esempio, scopriremo una cosa: che in tante aree del mondo questo esempio di cammino, di collaborazione, di passi avanti che scivolano spesso indietro ma che poi riprendono, questa storia è guardata anche come un esempio.
I paesi del Golfo ci chiedono: ma come funziona questa Unione Europea? Perché loro conoscono la nostra storia, sanno da dove siamo partiti. Ma anche noi dobbiamo ancora fare l’esame di coscienza su questo cammino, che così faticosamente è stato intrapreso, perché noi non l’abbiamo ancora compiuto del tutto. Si sono aggiunti nuovi paesi, sono stati dati i connotati a un sistema istituzionale che voleva somigliare a quello di democrazie tradizionale che però ogni volta che faceva qualcosa di nuovo si accorgeva che doveva tenere ben stretto l’identità di ogni paese, perché ogni paese e geloso di sé stesso. Perché non siamo come gli Stati Uniti, perché ogni città anche la più piccola ha una storia diversa da quelle del Minnesota, perché le nostre lingue sono un valore, perché i nostri territori non sono quelli dell’Ohio e quindi il meccanismo di come si è formata là qualche cosa che tiene insieme tutte queste nazioni, non può essere replicato nello stesso modo. Questo è sempre stato un problema delle leadership europee, della politica, di chi ha cercato di costruire l’Europa. Quell’esempio sarebbe più facile, ma proprio perché facile, non è adatto alla storia dei nostri paesi, per arte, per cultura, per paesaggio, per letteratura, per poesia.
Abbiamo però, in questi 70 anni, cercato di fare somigliare le istituzioni dell’Unione Europea a qualcosa di simile a una democrazia classica, ma ancora non ci siamo riusciti. Perché 27/28 paesi, che presto diventeranno 34, non sono spesso nella condizione di mettersi, di spogliarsi di tutto quello che loro hanno. Infatti, cos’è successo in questi 60 anni che un po’ di trasferimento di potere i paesi lo hanno fatto, ma non lo hanno fatto ancora del tutto. Pensate che è dal ‘53 che si parla di esercito comune e ancora non ci siamo riusciti. La creazione delle istituzioni europee ha risentito, e risente ancora, nei meccanismi che vorrebbero migliorare, del peso che ogni paese ci mette dal più piccolo al più grande. Il peso delle nazioni. Questo promontorio si è sviluppato con le nazioni, noi lo vediamo come un peso, ma anche la forza di come questo promontorio è andato avanti nella Storia passando tutte le fasi, che hanno portato alla nascita delle Nazioni. Da stato feudale a Nazione, è stato un approccio alla contemporaneità importante. Oggi quell’esame di coscienza e quelle priorità che abbiamo bisogno di mettere al centro ci dicono che quella contemporaneità lì non è più la nostra contemporaneità.
Ricordiamoci Demografia e Geografia ce lo dicono proprio. Guardando una carta geografica, si vede subito che l’Europa è al centro, tutte le carte geografiche che vedevamo da piccoli erano così. Ma oggi non è più così, e questo è il segno che quella grande avventura della formazione degli stati e delle nazioni oggi non risponde più alle esigenze, nemmeno delle opinioni pubbliche dei cittadini di quelle nazioni, figuriamoci del resto. Cos’è successo in questi anni per mettere in crisi quella centralità? La geografia e la demografia si sono spostate, e con loro tanti interessi si sono spostati. Siamo cinquecento milioni di cittadini, dall’altra parte del mondo ci sono 7 miliardi di persone che, come noi, vogliono migliorare, vogliono uscire dalla povertà, vogliono organizzarsi, stanno producendo, vogliono vivere in pace. Non sono sentimenti che possiamo sottovalutare e che determinano priorità diverse anche per noi. La globalizzazione, i meccanismi della globalizzazione hanno fatto in modo che l’Europa non fosse più al centro di questa cartina geografica, e nel tempo mettono anche a rischio quello che siamo.
C’è una bellissima osservazione che mi ha sempre colpito: se l’Europa vuole fare l’Europa, può essere vista come una Storia di successo, se non esporta potenza, ma se porta valori al mondo globale. E infondo qui anche la sapienza di intellettuali cattolici, e della Chiesa cattolica, che negli ultimi anni si sono interrogati sul fatto che viviamo una globalizzazione senza regole. Chi può dare regole alla globalizzazione? Come dare regole a questo processo? Chi pensa alla potenza? Chi pensa alla forza? chi vuole alzare il muro tra il mondo sviluppato e il mondo che corre per svilupparsi? Questo è il tema dei temi perché noi abbiamo due problemi: non abbassare i nostri standard di vita ma, nello stesso tempo, dare valori a una competizione che non può essere soltanto un argine ma deve consentire agli altri a vivere meglio. Ecco perché l’Europa serve ancora: per mettere nelle dinamiche globali qualche valore che può essere utile. Non sono molte le istituzioni che possono farlo. Non molti hanno un’idea della vita, dell’uomo, della persona, della comunità, della libertà e della democrazia ma soprattutto della giustizia. Perché in questo promontorio, con fatica, si è sviluppata un’idea di giustizia e perché quei meccanismi possono essere una violazione profonda di tutti questi valori.
L’Europa ha una grande missione da compiere se si guarda da fuori, ma invece noi siamo abituati a guardarci da dentro, a proteggerlo, a fare in modo che ci siano più incomunicabilità che comunicabilità, a cercare di proteggerlo dalle interconnessioni. È un’opera dannosa e inutile. Perché qualcosa in questo mondo, in questi ultimi decenni, è successo: per esempio, le frontiere si possono alzare ma non è più come prima. Si possono alzare ma inutilmente, perché tutto passa o sopra o sotto e passerà comunque sopra e sotto. Abbiamo, come dicevo, una grande missione e dobbiamo sentirla, non solo per proteggerci ma perché così come dopo la guerra qualcuno ha pensato che la frontiera potesse essere spostata sempre un po’ più in là, oggi anche noi abbiamo bisogno di definire un orizzonte in cui le frontiere sono più lontane. Se non avremo queste ambizioni, faremo la fine dei conservatori perché conservare non basta. E lo devono sapere anche i conservatori che se cerchi di proteggerti sarai marginalizzato, e che i meccanismi della globalizzazione possono marginalizzare facilmente e repentinamente. E una volta che stai fuori è difficile tornare dentro e noi non possiamo permettere che la Storia di questo promontorio finisca così. Ed ecco perché non bisogna essere conservatori. E lo sguardo deve essere lungo, per questo la storia dei ragazzi indiani che scommettono nell’uscita dalla povertà di migliaia e migliaia di persone ci riguarda. Ecco perché dobbiamo guardare alle regole della globalizzazione, le dobbiamo sentire come se fossero una scommessa per fare in modo che il mondo abbia collaborazione, solidarietà e non manchi quel minimo di giustizia. Noi abbiamo tante cose da fare, più fuori che dentro.
Abbiamo “il dentro” e io sono molto preoccupato per il dentro, perché questi sessant’anni hanno ancora tanto lavoro, bisogno aggiungere ancora tanto lavoro. Uno in particolare: mettere in ordine le nostre istituzioni. Questo è un lavoro che deve fare la politica, ma non può farlo da sola, perché se non viene fatto con le opinioni pubbliche con i cittadini sarà sempre un esercizio di potere, non di partecipazione. Ma non è solo il problema della politica o di una classe dirigente, è una questione che tocca tutti i cittadini, perché noi vorremmo un’Europa dove i cittadini sono protagonisti. La costruzione della democrazia europea è un laboratorio, abbiamo un parlamento eletto dai cittadini, poi abbiamo un processo legislativo in cui che pesano ancora troppo i governi nazionali sulle istituzioni europee. Dobbiamo fare in modo che i nostri interessi non scompaiano, ma che allo stesso tempo siano in equilibrio.
Perché come sempre avviene: se la democrazia non crede nei tuoi problemi, perché tu dovresti credere nella democrazia? Per questo è importante che le istituzioni funzionino, che alle questioni venga data risposta. Non è solo un problema di ingegneria costituzionale o istituzionale, è un problema politico. Se io, istituzione, non risolvo i tuoi problemi, tu, cittadino, alla democrazia non ci crederai. E nelle istituzioni europee sta accadendo un po’ questo, perché tutto viene chiesto ad istituzioni che non hanno il potere di rispondere a quella richiesta. Pensate all’immigrazione, pensate alla questione finanziaria, a tutto quello che ci capita intorno e alle richieste che vengono fatte all’Europa di muoversi in fretta, di risolvere, ma in realtà questo spesso non è possibile. Non è una cattiva volontà o distrazione, ma una impossibilità per competenze che non ci sono. Far vivere le istituzioni europee e mettere in ordine il quadro istituzionale e fare in modo che funzionino non è un’opera per ingegneri, ma per politici. E noi in questo momento ne abbiamo particolarmente bisogno, perché se vogliamo essere utili al mondo di fuori, il mondo di dentro deve essere pronto a poterlo fare. Non si scappa e, in fondo, la disaffezione nei confronti dell’Europa non è legata all’idea dell’Europa, ma a come l’Europa risponde alle esigenze, ai nostri problemi.
Equilibrare il peso dei governi con il potere delle istituzioni europee: questo è ancora il pezzetto che manca. Lo si vede nel processo amministrativo perché nel Parlamento una legge va a trilogo quando lo decide il Consiglio europeo, non quando lo decide il Parlamento a nome dei cittadini. Quando lo decide la Presidenza del semestre che decide: “Caro Parlamento tiriamo fuori dal cassetto la proposta di Sassoli sulla riforma ferroviaria e ne discutiamo”. Non dovrebbe funzionare così. Il peso delle nazioni rispetto agli organi europei è un tema importantissimo. Lo risolveremo domani? No, però abbiamo bisogno che le opinioni pubbliche sentano questo, perché è un pezzetto della difesa dell’idea di Europa. Ultima considerazione: si sono celebrati i quarant’anni dell’omicidio di Aldo Moro, che è stato per anni Ministro degli esteri e a lui e alla Presidenza della Comunità si deve la legge per l’elezione diretta del Parlamento europeo, lui diceva una cosa molto importante, che ci aiuta nella considerazione di non guardare soltanto il nostro l’ombelico: che la scommessa europea è una scommessa che ci riguarda perché noi siamo europei perché siamo in mezzo al Mediterraneo. Noi ce lo siamo dimenticati per molto tempo, anzi, si è dimenticata anche l’Europa che una parte dell’Europa, è europea perché è in mezzo al Mediterraneo. Ce ne siamo dimenticati, ad esempio, per una decina di anni quando abbiamo guardato, giustamente, soltanto ad Est. Questa è stata un’osservazione critica che ci ha accompagnato per molto tempo e oggi possiamo leggere in altro modo. Abbiamo guardato solo ad Est ed è stato questo il problema. Abbiamo guardato ad Est ed oggi l’Est è un esempio di coesistenza di pace. Pensate con le turbolente fanfare di Mosca cosa sarebbe accaduto se noi non avessimo fatto entrare molti paesi dell’Est nell’UE. Ma abbiamo guardato solo ad Est e, infatti, lo sguardo sul Mediterraneo è diventato troppo opaco per troppo tempo.
Ora si è risvegliato un po’. Quando è successo? Quando qualche paese ha cominciato a pensare che forse voleva somigliare un po’ di più a noi. In realtà è stata una grande illusione perché quei fenomeni non sono stati accompagnati dall’opinione pubblica e da uno spirito democratico, ma piuttosto lo spirito è stato catturato da altri interessi. E in fondo tutto il fenomeno delle primavere arabe, che abbiamo guardato con fiducia e con speranza, è in qualche modo tornato indietro, l’Egitto in particolare è il paese con i connotati di cui sto parlando, però noi non possiamo abbandonare il Mediterraneo, è casa nostra. Ma oggi nel Mediterraneo si stanno sviluppando dinamiche molto pericolose perché, come sempre, il Mediterraneo e il Medio Oriente sono uno dei centri del mondo, lo sono per tante tensioni in cui da si sviluppano contrasti, collaborazioni ma anche molti conflitti, crisi di identità. Il nostro sguardo, in questo momento, non può non mettere al centro dell’Europa il Mediterraneo. E su questo permettetemi due osservazioni: primo, noi siamo per le aree di libero di scambio perché pensiamo che le regole del commercio siano le più pericolose se non vengono guidate, accompagnate, perché sul commercio da sempre gli uomini si sono fatti la guerra. E questa è la prima osservazione, ecco perché noi, prima della presidenza Trump, abbiamo perso un’occasione che era quella di un mercato tra Europa e USA tutto da costruire e da contrattare, e non abbiamo difeso l’idea che un accordo sia meglio di un non accordo, perché un accordo si può migliorare, ricominciare da capo richiede delle condizioni particolari.
La seconda, noi siamo per gli accordi che con le regole, la giusta vigilanza, con la giusta accessibilità all’informazione mettano gli arsenali nella condizione di essere controllati e questo in particolare per quanto riguarda l’accordo con l’Iran, io credo sia intelligente, utile difenderlo. Non perché siamo benevolenti di qualcuno, ma perché anche un accordo sia migliorabile, mentre un non accordo apre a pericoli e poi si deve ricominciare sempre da capo. Su queste due questioni che riguardano l’economia e gli arsenali non pensavamo di tornarci su, ma oggi dobbiamo farlo. Gli uomini che si scambiano merci, informazioni, cultura, ci piace un mondo dove la potenza sia valutata, la forza sia controllata. Non pensiamo che sia possibile eliminare la forza, ma di poterla regolare questo sì. Tante volte lo abbiamo fatto con successo, abbiamo tanti “lavoretti” da fare come europei. Io penso che l’unica cosa che non dobbiamo fare sia rinunciare a questo spazio, fare in modo che anche i nostri cittadini si rendano conto che, per la vita nostra e anche per le generazioni future, l’Europa possa essere considerata la migliore assicurazione sulla nostra vita.
Da soli certamente, tutto quello che abbiamo detto, non possiamo farlo.