di Alberto Ratti*
 

Sono già due settimane che è stato allentato il lockdown e che molte persone hanno potuto fare ritorno al proprio luogo di lavoro e alle proprie faccende quotidiane, cercando di trovare una parvenza di normalità in una situazione nuova, impensabile da tutti e a cui proprio non eravamo preparati.
Certo, per molti la speranza è che tutto possa tornare il più possibile simile a com’era prima e che il tran tran quotidiano comprima di nuovo gli spazi e il tempo sospeso di questi mesi. Ma siamo davvero sicuri di voler ricominciare esattamente come se niente fosse successo, dimenticando gli insegnamenti che questa crisi ci ha lasciato e ci lascerà? Non credo sia possibile far finta di nulla o insistere in maniera egoistica sulle riaperture, perché chi proverà a ripartire senza aver fatto davvero i conti fino in fondo con quanto ci sta accadendo, si troverà in difficoltà e senza respiro più avanti.
 
Non sprechiamo anche questa volta – come nella crisi economica del 2008/2009 – l’occasione che l’immane tragedia del coronavirus ci offre: proviamo a ripensare e migliorare il nostro sistema economico, la nostra modalità di produrre, di creare ricchezza, di rispettare i diritti e i doveri dei lavoratori. La parola “crisi” deriva dal greco κρίσις «scelta, decisione», che a sua volta deriva dal verbo κρίνω «distinguere, giudicare»: niente di negativo, come spesso pensiamo, ma parole che richiamano al pensiero e all’azione, al setacciare con attenzione per trattenere davvero quanto vale e tralasciare il superfluo. Aristotele diceva che «l’economia è scienza che si dedica al bene umano.
 
Certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona; ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e la città»; come a dire che il vero banco di prova per il nostro progresso e il nostro sviluppo non sarà tanto se riusciremo a far crescere nuovamente l’abbondanza di coloro che già hanno troppo, ma piuttosto consisterà nel cercare di fornire abbastanza e sostenere soprattutto coloro che hanno troppo poco per vivere dignitosamente.
 
Maggio è il mese in cui sono state promulgate le encicliche sociali più importanti; penso in particolare alla Rerum novarum del 1891, la lettera apripista del corpus della Dottrina Sociale della Chiesa. Oggi come allora il nostro compito urgente è quello di discernere nel tempo che siamo chiamati a vivere «le cose nuove», perché esse possano contribuire alla crescita spirituale, morale e materiale della società, senza lasciare indietro nessuno e cercando di mantenere un equilibrio socio-ambientale accettabile e non distruttivo. La «stessa barca» sui cui il coronavirus ci ha fatto trovare tutti insieme è metafora della «casa comune», dove contesto ed esseri umani interagiscono costantemente.
 
Papa Francesco ha indicato nella Laudato si’ il paradigma che ci deve fare da bussola: quello dell’ecologia integrale, dove tutto è connesso e tutto è in relazione. La visione del pontefice, quindi, racchiude in un’unica dimensione la variabile umana e sociale da una parte e quella naturale ed economica dall’altra. Alexander Langer, politico e ambientalista cattolico mancato nel 1995, ha spesso denunciato come il motto dei moderni giochi olimpici fosse diventato la legge suprema e universale di una «civiltà in espansione illimitata: citius, altius, fortius, più veloci, più alti e più forti». Si deve cioè produrre, consumare, spostarsi, competere senza sosta. Il modello della gara è diventato il metro di paragone di uno stile di vita irreversibile, incontenibile, dove la crescita dell’economia, dell’utilità, della tecnologia ha dominato il tempo del progresso.
 
Non è forse venuto il momento, ispirandosi anche alla Laudato si’, di immaginare un nuovo benessere e un nuovo modo di vivere basati sul «lentius, profundius, suavius (più lentamente, più dolcemente, più in profondità)», tralasciando così le disumane velocità, concorrenza spietate per occuparsi davvero di ciò che più conta?
 
 
*Giornalista e membro del Centro Studi dell’Azione Cattolica Italiana
albertodaniele.ratti@gmail.com