Il percorso regionalista ha vissuto due grandi stagioni. La prima, attraverso i decreti del 1972 e del 1977 (in particolare col DPR n.616/77), con i quali lo Stato trasferiva alle Regioni a statuto ordinario la competenza amministrative delle materie elencate nell’originario art. 117 della Costituzione. La seconda, inaugurata nel 1997 con la legge Bassanini (legge n. 59/97) e realizzata nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione (legge cost. n.3/2001). Si ribaltavano rispettivamente le funzioni amministrative e legislative tra centro e periferia, riconoscendo alle Regioni, in base al nuovo art. 117 Cost., una competenza legislativa generale, tranne che per le materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato o a quelle attratte nella legislazione concorrente dei due soggetti.

Siamo ora agli albori della terza grande età del regionalismo, denominata del regionalismo differenziato, un altro passo verso il progetto costituente della Repubblica delle Autonomie, ossia di un modello di governo del Paese articolato su diversi livelli (Stato, Regione, Comune), ognuno dotato di autonomia costituzionalmente garantita.

Il regionalismo differenziato (altrimenti detto “asimmetrico”) si fonda giuridicamente sull’art. 116 terzo comma della Costituzione a mente del quale è prevista la possibilità di attribuire forme particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario nelle materie a legislazione concorrente (quelle dell’art. 117 terzo comma Cost.), nonché in alcune materie di competenza esclusiva statale, quali l’organizzazione della giustizia di pace, l’istruzione e la tutela dell’ambiente dei beni culturali, per un totale complessivo di ben 23 materie. È necessario, tuttavia, rispettare il disposto dell’art. 119 Cost., nel quale spicca al terzo comma, che “La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Le ragioni del regionalismo “a geometria variabile” sono evidenti: valorizzare le proprie vocazioni territoriali, adattarsi alle specificità locali, premiare una maggiore efficienza delle strutture regionali rispetto a quelle statali.

L’attuazione dell’autonomia differenziata è stata richiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e, il 28 febbraio 2018, il Governo nazionale ha stipulato tre distinti accordi preliminari con quelle Regioni. Nel frattempo, anche altre Regioni (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania) hanno manifestato la volontà di ottenere nuovi spazi di autonomia, senza, tuttavia, sottoscrivere, alcuna “pre-intesa”. Si è comunque ritenuto necessario adottare un legge in materia, che fissasse alcuni passaggi in modo da rendere il procedimento di riconoscimento della maggiore autonomia più chiaro.

È stato quindi presentato il disegno di legge Calderoli, composto di 10 articoli, e alle connesse disposizioni contenute nella legge di bilancio del 2023. Questo progetto è volto all’attuazione del principio costituzionale dell’autonomia differenziata. Vediamo come.

In primo luogo, l’attribuzione di nuove funzioni è subordinata alla determinazione dello Stato dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), in modo da garantire i diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale. Una vota stabiliti i LEP, potrà essere stipulata un’intesa (non prima di 5 mesi, dati i tempi procedurali).

Pertanto, al momento, il regionalismo differenziato è concepibile solo come promessa per il futuro.

Appare, nondimeno, prudente rilevare alcune criticità di fondo che sembrano sin d’ora presenti nell’articolato approvato dal Consiglio dei ministri.

Come primo appunto, il disegno di legge in parola non prevede espressamente (se non con un mero richiamo nella relazione illustrativa) alcun Fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, ponendosi, quindi, oltre che in formale contrato con il principio contenuto nel citato art. 119 Cost., come pericoloso viatico di accentuazione dei divari di ricchezza e dei fabbisogni di servizi di ogni cittadino italiano.

Inoltre, si supera la mancata individuazione dei LEP con un escamotage; la trattativa tra Stato e Regioni può stabilire le materie non-LEP (art. 3 del DDL), con un risultato finale peggiore del male, perché la stessa materia potrebbe essere compresa nel regime LEP in una Regione e non in un’altra.

In linea generale, c’è, altresì, da rilevare l’ulteriore possibile lesione del diritto di cittadinanza, laddove la prevista intesa andasse ad occupare delle materie di cui al citato art. 116 Cost., con particolare attenzione all’istruzione e alla salute.

Riguardo all’istruzione, infatti, le tre Regioni potrebbero determinare autonomamente la singola offerta formativa, decidere sulla dotazione organica e l’assegnazione dei docenti nelle scuole della Regione, completare gli organici mediante contratti a termine, anziché bandire concorsi, nonché finanziare nuovi corsi universitari.

Con riferimento alla sanità, aumenterebbe l’autonomia decisionale delle tre Regioni, ad esempio, sulla istituzione e gestione dei fondi sanitari integrativi, sulla disciplina dell’attività libero professionale e sulla previsione di incentivi ai dipendenti del SSN che operano nella Regione.

Nel testo del disegno di legge si prevede, ancora, che parte del gettito di imposte maturate sul territorio sia restituito alla regione per finanziarie le materie devolute (art. 5 comma 2). Ciò accentua il profilo finanziario dell’asimmetria, in quanto è evidente che a maggiori funzioni corrispondono maggiori risorse fiscali; così, ad esempio, un territorio più industrializzato che produce maggiore gettito Irap potrà destinare più risorse alla propria sanità “allargata” rispetto ad una regione con minore produttività, realizzando di fatto la paventata scissione dei ricchi a danno di territori più fragili.

Così strutturata, la riforma sostituisce, in pratica, un centralismo statale con un centralismo regionale con buona pace del, tante volte invocato, principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., che, di contro, privilegia il Comune quale attore di prima istanza dell’amministrazione pubblica.

In sintesi, se si potesse riassumere in una sola frase le critiche al progetto di regionalismo differenziato, si dovrebbe parlare di fedeltà alla lettera più che allo spirito della Costituzione dell’odierno legislatore.

La Costituzione, infatti, è improntata al principio solidaristico (si vedano i principi di uguaglianza, art. 3, di diritto alla salute, art. 32, di tutela della proprietà, art. 42 e di capacità contributiva, art. 53) e propende chiaramente per un modello federalistico di tipo cooperativo, anziché competitivo.

Andrebbero, pertanto, rivalutati, nell’ottica cooperativa, i progetti di istituzione di una Camera regionale nel Parlamento e di ampliamento delle competenze degli organi di raccordo tra Governo statale e governi regionali nella Conferenza Stato-Regioni, introducendo, inoltre, la partecipazione di rappresentanti delle autonomie locali nelle Commissioni parlamentari per le questioni regionali come previsto dall’art. 11 della legge costituzionale n.3/2001, consentendo anche il coinvolgimento delle parti sociali.

Quel che progressivamente sta emergendo, invece, è il grave travisamento dell’idea costituzionale di autonomia, a favore della separatezza e dell’autosufficienza dal resto della Nazione, invece di venire correttamente intesa come autogoverno nella consapevolezza dell’interdipendenza tra gli enti della Repubblica nel suo insieme. C’è poco da aggiungere, se non ricordare il monito evangelico, per il quale “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra”.

Non per altro, nei lavori della Costituente era presente “il pericolo di salti nel buio, di ritorni al feudalesimo ed al campanilismo, e, addirittura, di nuovi indugi che si frapporrebbero alla soluzione degli stessi gravi e cogenti problemi meridionali”, nonché la confusione di un regionalismo a più velocità: “Faremo le fattorie collettive in Emilia e manterremo il latifondo in Sicilia e la grande proprietà terriera nel Salento?” (cfr. sedute del 5 e 7 marzo 1947). La prospettiva storica esige, dunque, un sussulto di consapevolezza e di recupero del senso più profondo del proprio destino di comunità nazionale.