I recenti avvenimenti politici ci invitano a riflettere sul valore della leadership, su quali principi motivano l’agire politico e, più in generale, sul metodo e sullo stile delle decisioni politiche. Tornare ai classici della letteratura, in questo caso l’Eneide di Virgilio, può farci riflettere su questi temi, prendendo spunto dai grandi del passato per illuminare il presente. Nello specifico, il concilio dei Latini dell’undicesimo libro, una scena all’apparenza marginale, ripropone con forza e vigore l’immagine di una politica populista e interessata unicamente a interessi partici e “di palazzo”. Queste posizioni, però, non sono la scelta giusta perché non mettono al centro il bene pubblico, e infatti non sono in grado di rispondere alle sfide del mondo, e finiscono per essere sconfitte. Presentandoci un cattivo modo di fare politica, Virgilio ci indica la strada per una nuova, e migliore, vocazione all’agire pubblico.

Nell’undicesimo libro dell’Eneide, poche pagine prima della battaglia finale, Virgilio ferma l’azione e si sofferma su un dibattito interno al campo dei Latini, impegnati nella guerra contro i Troiani. Dopo i violenti combattimenti del decimo libro e i funerali che aprono l’undicesimo, il re Latino convoca i suoi uomini per decidere cosa fare. Durante l’assemblea, tre personaggi emergono in modo più vistoso degli altri: il re, Turno e Drance. Tre figure, tre proposte per porre fine alla guerra, tre modi diversi di fare politica. Nell’architettura del poema, questa scena getta le fondamenta per il duello finale tra Enea e il guerriero rutulo. Ma non solo: il concilio dei Latini è l’occasione, per Virgilio, di riflettere sul dibattito pubblico tardorepubblicano, mettendo in mostra i vizi e gli interessi personalistici che dominano la discussione alle soglie della Pax Romana.

La scena si apre con l’annuncio del fallimento dell’ambasciata da Diomede, uno tra i più valorosi guerrieri achei della guerra di Troia. L’aiuto militare del combattente greco era stato l’ultima speranza di vittoria per i Latini. Per decidere cosa fare, il re convoca rapidamente un consiglio. Parla per primo, e il suo discorso melanconico e sconsolato non affronta la situazione con coraggio né con piglio regale. Le soluzioni che Latino propone – cedere territori a Enea o regalare ai troiani delle imbarcazioni e spingerli a cercare fortuna altrove – sono soluzioni di comodo e insoddisfacenti, la scelta del male minore, che tutti sanno essere impraticabile e non conforme al volere degli dèi. Il vecchio Latino non ha le forze per affrontare la realtà e cerca compromessi facili e, in fondo, illusori. Non ha il coraggio di decidere, non si assume le proprie responsabilità istituzionali e, così facendo, crea un vuoto di potere.

Vista l’instabilità politica e la debolezza delle istituzioni, Drance, uno dei consiglieri presenti alla corte dei Latini, è il primo a muoversi per sfruttare la situazione. È un personaggio complesso, in cui due anime opposte convivono. Ottimo oratore, capace e fidato consulente del re, appartiene a una famiglia nobile per linea di madre e i suoi consigli sono lungimiranti e precisi. Ma è anche un uomo ricco e astuto, un demagogo animato da una cocente invidia nei confronti di Turno. La sua proposta è semplice: siccome Turno ha causato la guerra quando si è rifiutato di lasciar sposare Lavinia ad Enea, lui solo dovrà sfidare il condottiero troiano. È un consiglio sorprendentemente profetico, che si avvererà nel libro successivo, l’ultimo del poema.

Da abile politico, Drance ha notato i problemi e il malcontento della gente comune, ha il coraggio e l’assertività che mancano al re ma non propone una soluzione per il bene della comunità. Il problema della sua strategia sono le motivazioni: Drance non è interessato al bene dei suoi concittadini, vuole solo vendicarsi del rivale. Il suo discorso deliberativo diventa così un violento j’accuse contro il guerriero rutulo a partire dai malesseri delle persone: la fatica per la guerra, il dolore per le morti violente di amici e familiari, la rabbia per il continuo prolungarsi delle ostilità. È la strumentalizzazione del dolore degli altri per i propri fini. E, se anche la sua proposta porrà fine alla guerra, non è altro che il desiderio realizzato di screditare un concittadino e mantenere il potere.

L’ultimo a prendere la parola è Turno. Nel suo discorso accusa Drance di non aver mai combattuto un solo giorno e di non sapere quindi cosa voglia dire andare in guerra. A differenza sua, che è un vero guerriero, non ha voce in capitolo su come rispondere all’offensiva troiana.

Tutto l’attacco di Turno è costruito sull’opposizione tra i valorosi che agiscono e i pigri che giudicano dagli agi del focolare: un altro saggio di retorica populista, che usa l’ironia ed esagera strumentalmente la realtà per alimentare le divisioni. Distrutta la credibilità del suo opponente, Turno propone il suo piano: continuare a combattere per avere salvo l’onore. È una scelta “epica”, coerente con il personaggio e con i sistemi valoriali del mondo antico, e al tempo stesso egoistica. A Turno, in realtà, poco interessano le sofferenze del suo popolo, e dietro alla ricerca dell’onore nasconde il desiderio di accrescere il proprio potere sposando Latina.

La decisione non arriverà: non appena Turno ha esposto la sua proposta, i Troiani attaccano a sorpresa la città dei Latini e il consiglio viene sciolto per organizzare la difesa. La cattiva politica, il populismo interessato solo al mantenimento del potere, non reggono l’impatto con la realtà e ne vengono spazzati via.

Inoltre, in tutto il dibattito le reazioni del pubblico sono assenti: la politica personalistica e chiassosa, interessata solo alle soluzioni di piccolo respiro, è un gioco di potere, un artificio retorico che giova solo a chi il potere già lo ha e vuole accrescerlo. Non è per tutti, non è un impegno orientato al bene della collettività, e infatti taglia fuori la gente comune, che subirà le decisioni prese dal consesso.

Il Consiglio dell’undicesimo libro mette in mostra una politica misera, in cui l’immagine di sé e la retorica sono strumenti per prevalere sull’altro. Una politica interessata solo alla coltivazione del proprio orticello, che sfrutta drammi e sofferenze per il proprio tornaconto.

Virgilio dimostra che, alla fine, questo agire politico è destinato a fallire, e gli innocenti sono destinati a soffrire nei giochi dei potenti. La “cattiva” politica, la strumentalizzazione demagogica e populistica della realtà, quella esibita da Latino, Drance e Turno, non riesce a reggere l’urto del mondo che cambia, e crolla. Ogni sforzo è rumore vano, che non riesce a rispondere alle sfide della realtà.

Un’alternativa viene data proprio da quello che in questa scena manca: l’ascolto, il dialogo, la comprensione e il discernimento. Riconoscere la situazione, farsi carico della propria responsabilità, riguadagnare la centralità delle istituzioni, delle sofferenze altrui e della propria vocazione sono gli unici strumenti per ricostruire il bene comune, fermare la guerra fratricida e costruire la pace.

Il poema virgiliano, quindi, offre una precisa e incredibilmente attuale rappresentazione della cattiva politica, della politica interessata solo alla conservazione del potere e alla gloria di pochi. Inoltre, il cattivo governo è, come negli affreschi senesi, rumoroso e alienante, non rappresentata gli interessi della gente comune. Anzi, pur riconoscendo i problemi, li strumentalizza e li usa per i propri scopi personalistici. Alla fine, però, il compito della politica, e di chi si interessa alla “cosa comune”, è un altro: permettere il bene comune. D’altra parte, questa era la vocazione di Enea: parcere subiecties et debellare superbos. Virgilio sembra suggerire che solo questa politica, interessata unicamente alla persona e al suo compimento, possa garantire la pace.