di Giovanni Sammarco

L’esigenza di tenere fuori la politica dallo sport, tornata di recente nelle cronache italiane con il caso Olimpiadi, è un principio che molti addetti ai lavori, nel mondo sportivo, ribadiscono ripetutamente e con convinzione. Questo concetto emerge storicamente soprattutto in seguito a episodi che manifestano lo stretto legame tra sport e politica e che evidenziano la degenerazione della politica nella sua forma più estrema: espressioni di nazionalismo, di antisemitismo, manifestazioni di violenza da parte di tifoserie accomunate da un’ideologia e da un orientamento politico spesso riconducibile all’estrema destra. 

«È un fenomeno che non ha nulla a che fare con il mondo dello sport e che dovrebbe restarne fuori», si ribadisce allora. Questa prospettiva, però, anche in buona fede, esprime un limite di fondo che impedisce di affrontare il problema alla radice. Innanzitutto, sostenere che le degenerazioni del pensiero umano che affliggono il mondo dello sport, come il razzismo, debbano essere tenute al di fuori di questo mondo lascia intendere che possano trovare cittadinanza in altri ambiti sociali. In secondo luogo, è utopico – e per certi versi anche controproducente – pensare che il razzismo, così come qualsiasi altra manifestazione culturale (e quindi politica) che caratterizza la nostra società, debba essere confinato al di fuori dello sport, ovvero del più popolare tra i fenomeni di aggregazione sociale. D’altra parte, scrive Thomas Mann nel suo La montagna incantata: «l’apoliticità non esiste. Tutto è politica»

Se da un lato è quindi impossibile pensare al mondo dello sport come ad una grande isola felice, lontana dalle contaminazioni e dalle influenze della società, dal versante politico e della sua analisi poter contare sull’indissolubilità di questo legame è un vantaggio. L’assurdità dell’ideologia razzista è infatti visibile in tutta la sua semplicità e immediatezza nel mondo dello sport prima ancora che in qualsiasi dibattito argomentativo o dissertazione culturale. Nello sport la presunta superiorità di una “razza” sulle altre, asse portante dell’ideologia razzista, non solo non trova alcun riscontro concreto ma viene smascherata nella sua palese infondatezza. 

Questo perché la competizione agonistica, giocata da atleti che si confrontano tra loro alla pari, è aperta a qualsiasi risultato e in alcune discipline è spesso dominata da campioni appartenenti ad etnie che sono solitamente vittime delle ideologie razziste, e per questo considerate – al di fuori della scienza e della logica – inferiori. Insomma, grazie allo sport è estremamente semplice dimostrare che l’inferiorità di alcune persone rispetto ad altre è esclusivamente il frutto di preconcetti mentali, dell’odio e dell’intolleranza. Anche Papa Francesco, in una recente intervista alla Gazzetta dello Sport, ha parlato dei valori dello sport come strumento di inclusione. Nell’anno delle Olimpiadi, il pontefice ha definito la massima competizione agonistica a livello mondiale come «una delle forme più alte di ecumenismo umano, di condivisione della fatica per un mondo migliore».

Si potrebbero fare molti esempi di competizioni sportive che hanno contribuito a sfatare il mito della superiorità etnica dell’uomo bianco, atleti che spesso anche al di fuori del “campo di gioco” hanno sgretolato come un castello di sabbia i tentativi di affermare il razzismo come principio imperante nello sport e non solo. Da Cassius Clay – o come lui stesso ha voluto chiamarsi: Mohammed Ali – a Kareem Abdul Jabbar, Serena Williams, Lebron James. Da Tommie Smith e John Carlos agli italiani Andre Howe e Fiona May. Per non parlare di Pelè, tra i più grandi, insieme a Maradona, nella storia dello sport più popolare al mondo. Sarebbe molto più lungo l’elenco degli sportivi che hanno contribuito a rafforzare l’identità delle persone di colore in quanto tali, e a dar loro una voce, una speranza, una ragione in più per rialzare la testa. Alcuni hanno dimostrato il proprio impegno contro il razzismo non solo attraverso lo sport, ma utilizzando la visibilità offerta dalle proprie prestazioni sportive come trampolino di lancio per diffondere la lotta al razzismo in tutti gli altri aspetti della società. 

Uno degli esempi più evidenti, almeno negli ultimi tempi, è quello che ha coinvolto i giocatori dell’NBA, che dopo l’uccisione di George Floyd si sono attivati in prima persona per contrastare le manifestazioni d’odio e di intolleranza nei confronti delle persone afroamericane. Alcuni cestisti di colore, tra i quali il più celebre in attività è Lebron James, hanno dato il via a un movimento di protesta all’interno della loro lega. Una protesta pacifica ma importante, vista la rilevanza economica e culturale che il campionato di basket ha negli e per gli Stati Uniti. Come qualsiasi altro sport di successo per un qualsiasi altro Paese, l’NBA rappresenta per l’America un biglietto da visita di prestigio, oltre che una grande fonte di guadagno. Una protesta del genere, mossa dalle voci degli sportivi più amati e seguiti del pianeta, non può essere ignorata. 

È per questo che la politica non andrebbe allontanata dal mondo dello sport. Non si tratta certo di trasformare le competizioni sportive in terreno di battaglia per scontri ideologici e politici, ma di riconoscere nel potente veicolo di aggregazione che è lo sport il luogo per ribadire l’universalità, prima che di alcuni diritti, di alcuni principi che oggi non sono pienamente affermati, come l’eguaglianza. Per dare voce a chi ne ha meno e lottare per un mondo più equo e tollerante. È una strada faticosa ma percorribile, e conduce ad un futuro migliore per tutti.