di Francesco Occhetta
È noto, il 2 febbraio scorso il Presidente Mattarella ha rischiarato una delle notti più buie della Repubblica proponendo Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio. Si è trattato di una scelta istituzionale spartiacque, determinata dalla crisi profonda della politica in questa legislatura. Il ritorno alla competenza e al sacrificio è il monito e l’ultima speranza per chi si sta impegnando a gestire le istituzioni del Paese. Draghi, con le sue competenze e la sua storia di vita, rappresenta per l’Italia questa speranza certificata.
Ma la riva, che sarà da abitare e costruire, non è per nulla scontata. Proprio Mario Draghi ha di recente ribadito ai giovani che per ricostruire sono necessari “conoscenza, umiltà e coraggio”. Sono queste le caratteristiche che lo hanno distinto in Europa come uomo politico e non partitico, mentre coniugava giustizia sociale e studio, discernimento e scelte in favore del bene comune. La tolleranza e i beni pubblici di altri modelli non sono sufficienti per dare quel colpo d’ala necessario per salvarci dagli effetti della pandemia, questo Draghi lo sa. I giganti possono portare rocce pesanti, ma il peso potrebbe soverchiarlo se i partiti non ritroveranno un’unità nazionale e non faranno tutti un passo indietro. Lo scriviamo da tempo: senza una vera unità nazionale, costruita intorno alla soluzione di politiche urgenti, il Paese non si potrà salvare. Verrà invece colonizzato dai mercati finanziari che si muovono al di fuori dell’etica e del rispetto umano.
La maggioranza dei cittadini ha assistito attonita alla crisi: giorni spesi per ricostruire un Conte ter, poi l’esplorazione poco utile ma necessaria del Presidente Fico. Anche i media sono tra i responsabili della crisi politica e del dibattito pubblico, con una turnazione dei soliti volti a fare continua apologia della propria visione della realtà. Per quale motivo non si è entrato nel merito dei temi alle radici della crisi e non si è chiesto un conto dettagliato delle proposte delle parti? Per quale motivo non parlano coloro che hanno guardato negli occhi il rischio della pandemia o stanno ancora piangendo per avere lasciato i propri cari e amici o per aver perso tutte le proprie certezze? Può il giornalismo dire che una crisi è incomprensibile senza aver fatto le domande giuste per spiegarla?
La crisi ci spinge a ricercare proposte concrete e soluzioni di sistema nuove. Nella storia le epidemie (anche sociali) sono state sconfitte dal coraggio e dalla creatività, dalla generatività e dalla responsabilità di uomini e donne liberi e spirituali. Sono le voci della resistenza che costruiscono il domani. Le abbazie carolingie del VII secolo e i monasteri benedettini dell’XI sono nati in Europa come luoghi di riflessione e con debiti perenni rivelatisi nel tempo investimenti. Per il presidente Mattarella le urgenze sono almeno tre: la campagna di vaccinazione, lo sblocco dei licenziamenti a fine marzo e il Recovery Plan da consegnare in Europa ad aprile[1]. Giuseppe Conte ha il merito di avere ottenuto la fiducia dell’UE. Il Paese può essergliene grato, ma non è stato aiutato dall’imbarazzante cultura pentastellata e dall’appiattimento strategico del PD.
Ora però lo scenario è cambiato: il mandato del Presidente Mattarella è chiaro: «realizzare un Governo di alto profilo riconducibile ad alcuna formula politica». È lo spartiacque che segna la discontinuità e ha confuso le forze politiche che, in pochi giorni, hanno sostenuto posizioni di apertura, contraddittorie alle loro nature, alle loro alleanze e ai loro programmi. Ma c’è di più. L’attuale offerta politica non rappresenta più il Paese e, come dopo il Governo Ciampi, adesso sarà urgente ripensare regole e schieramenti, rilanciare un dibattito diffuso e risvegliare il senso sociale e civile tra i cittadini. Nascono ora due cammini tra loro paralleli: le scelte e l’azione del governo Draghi e la ricostruzione delle regole sociali e politiche per il medio termine, che prepareranno le prossime elezioni. È su questo secondo punto che nasce la nostra preoccupazione.
Senza scendere negli aspetti tecnici, vogliamo ribadire alle forze politiche alcuni criteri da avere a cuore per arrivare a regole del gioco più certe e responsabili e per ricostruire un vero dibattito pubblico: garantire una reale maggiore rappresentatività politica; assicurare un elevato grado di governabilità per garantire la democrazia dell’alternanza; ridurre la frammentazione del sistema partitico; rispettare le minoranze politiche; permettere all’elettore di scegliere le alleanze di governo e il nome del presidente; facilitare la stessa maggioranza sia alla Camera sia al Senato; assicurare una adeguata rappresentanza di genere; contenere le spese elettorali; ridisegnare in meglio i collegi elettorali dopo la riduzione del numero dei parlamentari.
Ripensare insieme le regole darebbe la possibilità di fare riforme urgenti rasserenando così il clima politico e favorirebbe coalizioni di governo: stabili, che rispettino la centralità e l’autonomia del Parlamento; alternative, basate su ideali e programmi diversi; moderate, in cui le diverse forze politiche si impegnino a realizzare nella mediazione un programma elettorale. Lo ribadiamo, le regole del gioco sono importanti. Anche una legge elettorale che si ponga il problema di come scegliere coloro che ci rappresenteranno e governeranno non è mai una scelta tecnica. Si tratta sempre in realtà di una scelta politica, perché influisce su due fondamentali princìpi della democrazia, la rappresentanza e la partecipazione. In altre parole, il voto dell’elettore può avere un peso diverso a seconda del sistema elettorale che si sceglie.
Si vorrebbe davvero ritornare al proporzionale, che favorirebbe il voto di scambio e la frammentazione del tutti contro tutti? Possiamo riportare il sistema in mano a pochi partiti, poco presenti nei territori e con una scarsa selezione della classe dirigente? Da suddito il cittadino deve ritornare ad essere arbitro in grado di scegliere l’indirizzo politico da dare al Paese. In questo scenario instabile il modello dell’elezione dei sindaci e dei Presidenti delle Regioni ha funzionato, tanto che intorno a questa esperienza si sono formate partecipazione e politiche attive. Sulla stessa logica si basa il doppio turno francese, che permette di votare con “il cuore” il proprio partito e con “la ragione” lo schieramento di governo che si forma dopo due settimane tra le forze che hanno ottenuto più voti. Sembra un tema tecnico, ma per battere il cuore ha bisogno di un corpo che lo protegge. Per questo occorre non perdere tempo.
Lo stesso Seneca, nelle Lettere a Lucilio, ci ricorda un monito davanti al quale reagire subito: «Una delle cause delle nostre miserie è che noi viviamo l’esempio altrui e, invece di regolarci secondo ragione, ci lasciamo regolare dalla consuetudine. Se fossero pochi a fare una cosa noi non avremmo voglia di imitarli; ma una volta che si è generalizzata una moda, la seguiamo, nella condizione che una cosa diventi onorevole se è fatta da molte persone. Così per noi l’azione prende il posto dell’azione retta, quando è diventata l’errore di tutti». Per noi non sia così!
[1] Si veda per approfondire: F. Tufarelli, Fiducia nella ripartenza e M. Fornasiero, La grande sfida della democrazia partecipativa