di Stefano Cherti
Se l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia, grazie agli sforzi della ricerca e della medicina, sembra incanalata su una via di risoluzione, lo stesso non può dirsi per un’altra emergenza: quella del lavoro. Un problema che in Italia ha radici ben più lontane e che, purtroppo, la situazione emergenziale di quest’ultimo anno ha reso ancora più forte. I dati usciti nelle ultime settimane, riguardanti il mercato del lavoro, sono impietosi e non lasciano spazio neanche ad ottimismi di facciata. Nel solo mese di dicembre l’Istat ha certificato che gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità (99.000 donne e 2.000 uomini si sono ritrovati a non avere più un lavoro). Ancora, il tasso di disoccupazione è salito al 9,0% a dicembre, con un incremento di +0,2 punti percentuale rispetto al mese precedente.
Quanto alla perdita complessiva degli occupati, negli ultimi dodici mesi il saldo negativo ammonta a 444.000 unità di cui poco più di due terzi è costituito da donne. Sono numeri che lasciano senza parole e che dovrebbero allarmare. Infatti, bisogna considerare che tutto questo è avvenuto in un periodo di blocco generalizzato dei licenziamenti (che a legislazione vigente durerà sino al 31 marzo 2021) e con un ricorso massiccio alla cassa integrazione. Due misure eccezionali, senza precedenti nella storia repubblicana e che, se confrontate col dato negativo relativo all’occupazione, lasciano sgomenti. Per legge è possibile bloccare i licenziamenti ma se le imprese, complice la crisi sanitaria (e le misure prese per arginarla), sono costrette a chiudere, i dipendenti si troveranno ugualmente senza lavoro.
D’altronde, che il lavoro sia “la vera emergenza” ed il settore in cui dovrebbe essere massimo lo sforzo di ogni Governo è testimoniato, qualora ce ne fosse bisogno, dal fatto che il legislatore costituzionale, memore della sua centralità, l’ha collocato a fondamento della Repubblica. Il lavoro è l’elemento fondativo, la pietra su cui si regge l’intera costruzione repubblicana. Analizzando i numeri appena ricordati, emerge chiaramente che sono le donne ad aver pagato il prezzo più alto di questa pandemia. Questo perché sono in prevalenza occupate nei settori maggiormente colpiti e che stentano a ripartire, come ad esempio quello dei servizi e del turismo. Inoltre, occorre ricordare come le donne siano spesso titolari di “contratti fragili”, contratti a tempo determinato, che non offrono coperture adeguate. In particolare, i dati del terzo trimestre 2020 certificano che l’occupazione femminile è ferma al 48,5% contro il 62,4 % della media euro, e tra le “giovani donne” l’Italia fa peggio della Grecia con un dato che si assesta al 39,3%.
È evidente: non c’è tempo da perdere e, soprattutto, non si possono aspettare i fondi del Next Generation EU che arriveranno “tardi”, cioè non prima dell’ultimo trimestre 2021. È vero, siamo il Paese che riceverà più soldi dall’Europa, non perché a livello politico si è negoziato bene, ma perché siamo il Paese che sta affrontando questa crisi con le maggiori difficoltà: crescita zero, debito pubblico elevatissimo, produttività stagnante, disoccupazione elevata (soprattutto per i giovani e per le donne). Da questo punto di vista togliere alle generazioni future i fondi loro destinati dal Next Generation EU, per dirottarli su capitoli di spesa improduttiva o in mille rivoli senza visione, sarebbe un vero scempio.
Bisogna pensare, e in fretta, all’emergenza occupazionale, a come contenere dati così allarmanti. Sinora è mancato un dibattito serio sul versante della formazione e sulle politiche attive. Per invertire la rotta non sono più sufficienti solo sgravi contributivi per l’assunzione di donne o giovani. Invece di provvedimenti specifici e di corto respiro servono (tante) risorse. Banale osservarlo, ma se mancano le infrastrutture (ad esempio asili nido di qualità e funzionanti) gli sgravi contributivi per l’assunzione delle lavoratrici non servono. Le donne, che sono anche madri, non possono certo “abbandonare” i figli. Servono investimenti su tutta una serie di infrastrutture sociali e sul welfare di prossimità. Non va dimenticato, infatti, che durante questa pandemia sono state sempre le donne ad occuparsi degli anziani, dei malati e delle persone bisognose. Invece di immettere finanza in misure come il reddito di cittadinanza, meglio dirottare immediatamente quei fondi a livello locale per la creazione (ovvero il sostegno) di strutture come scuole, centri ricreativi, servizi di trasporto.
Bisogna fare in fretta, e questa volta non è solo un modo di dire. C’è un’ulteriore scadenza che dovrebbe preoccupare, qualora ce ne fosse bisogno, più della fine del blocco dei licenziamenti al 31 marzo 2021: si tratta della fine, già programmata il 31 marzo del 2022, del quantitative easing, cioè del massiccio acquisto di titoli di stato dei Paesi EU da parte della Banca centrale europea con lo scopo di aumentare l’offerta di denaro in circolazione e favorire l’economia. L’Italia, di fatto, ha davanti a sé dodici mesi per invertire la rotta e iniziare a correre per davvero; una volta finito il paracadute della Banca centrale europea non ci sarà più spazio per errori e tentennamenti. Meglio trovare “cure efficaci” e “vaccini rapidi” per intervenire sul mercato del lavoro (soprattutto per i giovani e le donne) prima che la malattia diventi irreversibile e una parte fondamentale della nostra forza lavoro perda ogni speranza, rinunciando a trovare un impiego.