di Marta Della Torre*
“L’Italia non può tornare alla normalità”, afferma il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte (agi.it).
“La Spagna vuole tornare alla normalità in otto settimane”, secondo Sanchez (ilpost.it).
“Per tornare alla normalità potrebbero volerci due anni” la previsione di Ryanair (Il Messaggero).
“Il 62% degli italiani vuole un supporto per tornare alla normalità” (Quotidiano Sanità).
Questi titoli potrebbero confonderci, sino a convincerci, che i popoli di tutto il mondo sarebbero desiderosi di tornare a quello che avevano prima, alla normalità.
Ci si potrebbe chiedere: “di quale normalità si sta parlando?”
Da un punto di vista collettivo, ad esempio, normalità potrebbe essere quella degli ultimi rapporti Istat[1] ove emerge come, prima del lock down, la depressione fosse il disturbo mentale più diffuso, coinvolgendo in Italia circa i 3,7 milioni di persone; di come la salute mentale incidesse in una percentuale pari al 3,2% sulla spesa sanitaria pubblica totale; infine, di come fossero allarmanti i dati relativi al tasso d’inquinamento, allo stress, alla disoccupazione o alla povertà. Allo stesso tempo, in una dimensione individuale la parola “normalità” si declina nella mente di ognuno in molteplici e differenti significati.
Quindi, cosa si intende per “normalità”?
In statistica si definisce normale ciò che è più probabile che accada, ossia tutto quanto si discosti dalle estremità e ricada in una fascia centrale di casi: in altre parole, possiamo definire normale ciò che si trova entro certi standards. È evidente che tale definizione non abbia nulla a che vedere con il grado di soddisfazione o di benessere individuali: chi ci potrebbe assicurare, infatti, che “tornare alla normalità” ci garantirebbe una condizione migliore di quella che ci attende? La risposta è tanto semplice che potrebbe risultare banale: nessuno.
Pertanto, per quale motivazione “tornare alla normalità” sarebbe così importante da spingere governanti, aziende e uomini influenti di tutto il mondo a garantirlo? Per rispondere a questa domanda iniziamo col dire che la mente umana si potrebbe paragonare ad una macchina “salva vita”, che si è evoluta pensando negativamente, ossia cercando di prevedere rischi e pericoli, per controllarli e, quindi, proteggersi e sopravvivere [1].
Questo “tornare alla normalità”, perciò, è da considerarsi non desiderabile in quanto tale, ma piuttosto come una terra psicologicamente franca, un’Itaca pronta a ripristinare ogni bene e potere perduti, una sorta di “regolarità statistica” conosciuta e governabile, tale da sembrarci una buona alleata per la sopravvivenza.
Potremmo, dunque, parlare di un tentativo rassicuratorio da parte dei leaders mondiali, tanto comprensibile e consolatorio in un primo momento, quanto a lungo termine inconsistente: poiché oscillando tra un effimero “tornare” e un irrazionale “andrà meglio più avanti”, sembra pretendere di non assumersi nessun rischio. Tale atteggiamento, inoltre, potrebbe celare un evitamento esperienziale del presente, che unito alle aspettative irrealistiche di poter mantenere tutto sotto controllo, diverrebbero importanti cause di sofferenza psicologica, aumentando sentimenti di disagio e di frustrazione [2].
La domanda a questo punto diviene: cosa potrebbe esserci più utile?
Fare spazio all’accettazione: da non confondere nè con un traguardo da raggiungere, nè con un sentimento di rassegnazione, ma da intendersi come la disponibilità a stare nel qui-e-ora, senza reprimere pensieri o emozioni indesiderate, ma semplicemente abbracciando il momento presente. Non significa “stringere i denti e tirare avanti”, ma rendere l’oggi, un’esperienza vivibile e attraversabile: l’accettazione diviene così l’unico processo psicologicamente sostenibile che può trovare scopo e significato in ogni angolo della propria esistenza [1]. A ben vedere, l’alternativa comporterebbe il rischio di rimanere bloccati: da una parte nell’illusione di poter tornare indietro (condizione irrealizzabile) e dall’altra nella convinzione che quella conditio ante Covid-19 sia necessariamente migliore di quella che stiamo vivendo e che verrà (condizione ad oggi non confutabile).
In conclusione, lasciandosi ispirare da personalità quali Viktor E. Frankl [3] o Nelson Mandela [4], anche se dovesse attenderci la situazione più drammatica, questa non si risolverà reprimendo l’ansia o pensando a quando non sussisteva, bensì accogliendola e trasformandola in reale Possibilità: non abbiamo bisogno di tornare alla normalità, perché possiamo abitare la nostra quotidianità.
*psicologa e psicoterapeuta in formazione
Bibliografia
- Russ Harris, Fare act, ed. FrancoAngeli, 2011;
- Antonio Nisi, Guida alla Ristrutturazione Cognitiva, ed. Positive press, 2018;
- Viktor E. Frankl, Uno psicologo nei lager, ed. Ares, 2009;
- Nelson Mandela, Lungo cammino verso la libertà, ed. Feltrinelli, 1995;
[1] Report Istat 2018: La salute mentale nelle varie fasi della vita, 2018