di Giulio Stolfi
 
Siamo entrati nella crisi più spaventosa dell’età della globalizzazione, quella causata dal covid-19, con il sorriso sulle labbra, un’aria di incredulo sarcasmo e lo slogan “andrà tutto bene”, spesso seguito dall’altrettanto banale e irenico “ne usciremo migliori”. L’esperienza di un anno doloroso, luttuoso, amaro, costellato di errori, ci insegna che sta accadendo esattamente il contrario: l’epidemia ha portato allo scoperto gran parte delle fragilità, dei peccati e delle brutture che sonnecchiavano sotto la superficie della nostra società, regolarmente additati per tali da anni, peraltro, dalle solite voces clamantium, ma creduti veri pressoché da nessuno.
 
Molte apparentemente recenti, pensose “scoperte” sulla solitudine e la disperazione dell’uomo immerso in una vita da puro consumatore, asociale, privato di volto, anima e relazioni in una spersonalizzazione totalitaria che trasforma la “vita” in mera “esistenza”, fanno addirittura parte dell’armamentario concettuale dei critici della società di massa dalla prima metà del Novecento. Particolarmente attuali suonano le considerazioni di un grande pensatore economico-politico, Wilhelm Röpke, giustamente tornato di recente alla ribalta nel dibattito pubblico italiano[1]. Nella sua opera forse più nota, Al di là dell’offerta e della domanda, Röpke si soffermava sulla china apparentemente inarrestabile su cui gli sembrava avviata la civiltà all’alba dell’era atomica, descrivendo a tinte forti e cupe il dramma della “moderna vita di massa” e la perdita dell’“unità della personalità umana”, “frantumata”, “disintegrata” dalla “tecnicizzazione”, dalla “specializzazione” e dalla “funzionalizzazione”[2].
 
Rileggendo queste righe “vecchie” di sessant’anni, si rimane colpiti. In primo luogo, da quanto esse si prestino a descrivere il nostro mondo, una volta che si sia costretti a guardarlo nella brutalità dei suoi meccanismi elementari, senza le distrazioni che rendono sopportabile la routine quotidiana e senza l’hype degli entusiasti dell’era digitale, ammutoliti dall’epidemia. Ma non si può non prendere atto anche della loro straordinaria lucidità nel cogliere i nodi essenziali, tuttora intatti, sui quali l’autore riteneva necessario agire per invertire la rotta verso il disastro.
 
Una “ecologia integrale dell’umano” come quella proposta da Röpke (e non solo da lui) sembra oggi ancora l’unica reale via d’uscita dalla crisi. E non è un caso che, sul piano degli ineludibili cambiamenti all’altezza del modello produttivo, la c.d. transizione ecologica sia il vero architrave del poderoso piano di intervento economico introdotto, proprio in risposta alla crisi sociosanitaria scatenata dal Covid-19, dall’Unione europea con il Next Generation Europe (NGEU) e con il nuovo Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) approvato a fine 2020.
 
Se però il rinnovamento nel segno della ri-umanizzazione deve essere davvero tale, esso non può rimanere confinato alla sola dimensione economica. È necessario portare nel dibattito il tema parallelo di una sorta di “ecologia istituzionale” (come è stata chiamata, proprio su questa testata da p. Francesco Occhetta), osando modellare nuovi equilibri del potere pubblico, più rispondenti alle sfide dell’oggi e soprattutto più al servizio della persona.
 
Una lezione, non ancora abbastanza evidente a molti, di quest’anno di epidemia è sicuramente quella dell’inadeguatezza conclamata dello Stato sovrano di ascendenza ottocentesca (forma di organizzazione del potere pubblico che, pur all’esito di radicali evoluzioni e mutamenti, ci accompagna ancora oggi) nel gestire problemi che prescindono da una determinatezza spaziale. La sovranità è veramente tale solo se si esercita su una frazione di individui confinati entro un ben determinato spazio fisico, come insegna, fra gli altri, Carl Schmitt. Include l’esperienza che viviamo: da un lato ci viene proposto/imposto di continuare a consumare e produrre come se nulla fosse, dall’altro il potere pubblico, per garantire l’esistenza dei sudditi, limita drasticamente gli spazi comprimendo il nostro “essere in relazione”.
 
È necessaria, a tal proposito, una presa d’atto: bisogna abbandonare la finzione della a-storicità dello Stato, facendo transitare una verità da tempo riconosciuta per tale in sede accademica nel concreto dibattito politico, prendendo quindi atto del fatto che lo Stato, come ogni forma di organizzazione del potere nel corso del cammino umano, come prodotto giuridico-politico storicamente determinato, avrà una sua fine, un tramonto inscritto nella propria parabola. Ed è del pari necessario avvedersi di come questo tramonto sia esattamente nel tempo che stiamo vivendo.
 
Solo con questa consapevolezza di partenza potremo cominciare seriamente a ragionare di una forma di esercizio della potestas publica che si affranchi dalla spazialità, o che la releghi ad un rilievo secondario, pur senza ricadere in un paradigma “imperiale”, e si ponga, quindi, nella condizione di affrontare a servizio dell’umano le sfide di un mondo reso piccolo dalla tecnica, che in quanto tale non ha più confini interni. Spunti concreti in questo senso cominciano ad apparire da più parti. In risposta alle inadeguatezze degli Stati del Vecchio Continente, Mario Draghi, nel discorso con cui ha chiesto la fiducia al Senato, ha ri-evocato la nozione di “sovranità europea”, un concetto che egli aveva già proposto anni fa, nel ruolo di presidente della Bce, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza da parte dell’Università di Bologna.
 
La “sovranità europea” non è un’etichetta per rimandare ad un disegno federalista, troppo spesso richiamo “di comodo” per i critici della costruzione europea attuale. La “sovranità europea”, per strano che possa sembrare, prescinde dal raggiungimento (improbabile) della statualità; realizzandosi, invece, come attributo di una costruzione istituzionale peculiare, che, appunto, della statualità fa meno. Ma come può esistere la sovranità senza lo Stato? Questa contraddizione insanabile sembrerebbe minare alla radice il discorso fatto proprio da Draghi (e non solo da lui). Non esiste Stato senza sovranità e non esiste vera sovranità senza Stato: è una delle prime lezioni che si apprendono in qualsiasi corso universitario di storia delle istituzioni politiche.
 
A ben leggere, però, si comprende che, nel contesto di nostro interesse, il termine “sovranità” venga utilizzato come una sorta di “materiale di recupero”, non differentemente da quanto si faceva, a partire dall’Alto medioevo, con gli edifici di nuova costruzione, che – come si sa – inglobavano marmi, colonne, pilastri e capitelli dell’antichità, in un amalgama inedito e non privo di una sua bellezza e solidità.
 
“Sovranità europea” indica, in modo molto pragmatico, l’auspicata capacità dell’Unione, nella sua forma attuale (non-Stato) di presentarsi come attore autonomo, indipendente, sulla scena internazionale, capace di autodeterminarsi in un mondo multipolare, dove le forze da affrontare sono diverse e intervengono a diverse altezze: potenze statuali che si contendono il predominio regionale e globale; potenze non-statuali che con le prime interagiscono e perseguono propri programmi e propri fini: le grandi multinazionali, i fondi d’investimento, ecc. La capacità di porsi come superiorem non recognoscens propria dell’Europa come esperimento istituzionale si contrappone, in questo senso, alla “sovranità statuale” oltrepassandola, stando ad essa in un rapporto di distinzione simile (si direbbe, anzi, speculare) a quello in cui questa si trovava, all’inizio dell’età moderna, rispetto alla suzeraineté medievale. “Sovranità europea” è, pertanto, un placeholder, un concetto provvisorio, dietro al quale si nasconde, finalmente, la ricerca di un senso della direzione dell’architettura eurounitaria, che tante volte negli ultimi decenni è parsa inciampare e arenarsi.
 
Come la stessa etichetta qui più volte menzionata – nell’impiego del termine “sovranità” – mostra chiaramente, questa forma di organizzazione dei pubblici poteri “oltre lo Stato” vive ed opera grazie a strumenti propri della grammatica della statualità. Questo non deve stupire: è, infatti, uno stato tipico delle fasi intermedie, nelle quali il germe del nuovo convive con un passato che è ancora presente, e lo sarà per molto tempo. Come ha scritto, parlando dello snodo fondamentale del terzo secolo d.C., Franz Altheim nel suo Il volto della sera e del mattino (lodevolmente ripubblicato proprio in questi giorni dal Corriere della Sera nella serie di classici della storiografia sul Medioevo a cura di Franco Cardini), è questo un tempo in cui «come su una bilancia, tutto si arresta: per un attimo le grandi ‘forme’ storiche, come d’incanto, si trovano le une di fronte alle altre, prima che prenda l’avvio un nuovo moto».
 
Nella lunga transizione che stiamo vivendo, e che la crisi attuale accelera, pur non costituendola, un nuovo assetto istituzionale adeguato alle sfide future può ben continuare a costruirsi con i materiali di recupero della statualità, che rimane e a lungo rimarrà, con la sua cassetta degli attrezzi, essenziale al funzionamento dei pubblici poteri. A patto, però, che si riconosca, ed anzi si persegua, il mutamento delle sostanze. In un quadro simile, la complessa (finanche, a volte, contorta) apparecchiatura istituzionale europea si offre come un possibile specchio giuridico-politico della “terza via” economica, riscoprendo l’ideale dei Padri fondatori: una soluzione flessibile, una concordia discors che agisce da moltiplicatore dei punti di forza dei singoli Paesi membri e interviene in sussidiarietà ad occupare spazi che questi non possono presidiare, ritraendosi dove, invece, devono essere valorizzate le differenze e le disomogeneità.
 
Si tratta però di un traguardo da conquistare, non di una vittoria scontata, lo dimostrano i tentennamenti, le rigidità e le criticità della strategia vaccinale impostata dall’Unione, così come gli ostacoli nazionali, che in questi giorni iniziano a manifestarsi, alla piena operatività del NGEU. Anzi c’è di più, si tratta di una premessa per verificare la validità di un metodo che deve saper filtrare fino ai livelli di esercizio di potestà pubbliche più vicini al cittadino, costituendosi come nuova gestione del potere, che appunto perché prescinde dalla pretesa “assolutistica” intrinseca all’idea di sovranità, di individui soli prova a ricreare “comunità” di persone in relazione. Tutto ciò implica, da subito, per l’Unione, profondi ripensamenti, rinnovamento di contenuti, soluzione di sovrapposizioni e aporie, acquisizione di un nuovo slancio ideale. È una sfida non facile. L’inizio di uno stretto sentiero, però, è tracciato: val la pena percorrerlo per scoprire dove porterà.
 
 
[1] A partire da un recente articolo apparso sul Sole 24 Ore a firma di Natalino Irti (26 febbraio 2021), seguito da un cospicuo dibattito, Röpke è stato indicato, in quanto padre della Social market economy e fautore della c.d. terza via, come esempio di una visione che potrebbe, almeno in parte, rappresentare un’influenza e un’ispirazione significativa per quella del governo guidato da Mario Draghi.
[2] Al di là dell’offerta e della domanda nella nuova edizione uscita nel 2015 Rubbettino Editore, con un pregevolissimo apparato introduttivo a cura di Dario Antiseri e Flavio Felice.