Scuote le coscienze, o almeno dovrebbe, il “Caso Cospito”, storia di un anarchico – detenuto da oltre 10 anni e dal mese di maggio sottoposto al regime di carcere duro – che da 114 giorni prosegue lo sciopero della fame. La volontà del detenuto è chiara: lasciarsi morire lentamente e sotto i nostri occhi. Lo si evince dal mandato conferito pochi giorni fa al suo legale per impedire, attraverso vie giudiziarie, ogni forma di alimentazione forzata ove dovesse perdere conoscenza. Un uomo senza mangiare resiste in media 70 giorni. I rischi per la vita del detenuto hanno portato l’amministrazione giudiziaria al suo trasferimento nel carcere di Opera di Milano, dove sono presenti le attrezzature necessarie per un’eventuale cura. La storia di Cospito fa da eco a quelle di altri 84 detenuti che nel 2022 hanno scelto di togliersi la vita in un carcere italiano.

La protesta utilizza il corpo come strumento per manifestare il proprio pensiero. Tornano alla mente le proteste non violente di matrice orientale denominate “Sathiaghra”, dal sanscrito, forza e fermezza. Il termine ha in sé anche la parola “ahima” ossia assenza di danneggiamento. L’anarchico mira a contestare il c.d. art. 41-bis della legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario e l’ergastolo ostativo, la pena più grave: la reclusione si protrae per tutta la durata della vita del detenuto senza possibilità. Il regime di cui all’art. 41-bis è stato applicato poiché il detenuto avrebbe dato prova di “essere perfettamente in grado di collegarsi all’esterno, anche in costanza di detenzione intramuraria al regime ordinario, inviando documenti di esortazione alla prosecuzione della lotta armata di matrice anarchico insurrezionalista”, si legge nelle motivazioni del provvedimento, riportate sul Sole24Ore.

Entrambi gli istituti penalistici sono da molto tempo oggetto di dubbi sia in punto di legittimità costituzionale che di compatibilità con la Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). La nostra Costituzione all’art. 27 afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. In Italia la pena ha una funzione rieducativa e mira a reinserire chi la subisce nella comunità dei consociati. I condannati che svolgono durante la detenzione un’attività lavorativa mostrano un tasso di recidiva particolarmente basso, pari al 3%, contro una media di oltre il 60% per chi non ha un’opportunità simile. Reinserire, piuttosto che lasciare ai margini, non è solo una scelta etica, ma anche uno strumento per assicurarsi maggiore sicurezza. Anche l’art. 3 della CEDU stabilisce che nessuno può essere sottoposto né a pene o trattamenti inumani e degradanti.

La ratio dell’art. 41 bis – concepito in una fase emergenziale – è quella di impedire che il detenuto considerato pericoloso possa continuare ad intrattenere contatti con i suoi sodali e dirigere dal carcere attività illegali. Sebbene la sua ragione sia comprensibile, le modalità attuative sono spesso sproporzionate e non necessarie per il perseguimento di questi fini. Cospito e tutti gli altri detenuti soggetti a tale regime vedono il trattamento loro riservato esacerbato. Come si può immaginare le comunicazioni con l’esterno sono ristrette e controllate, ma non solo. L’ora d’aria è ridotta a trascorrere due ore in un cubicolo di pochi metri quadrati con un tetto. Sono limitati al minimo i momenti di socialità con gli altri detenuti, aspetto che porta alcuni di loro a disimparare l’uso del linguaggio. La possibilità di ricevere libri di lettura è limitata ad un libro al mese. Vietato il materiare pornografico. È possibile portare con sé solo 10 fotografie care. E si potrebbe continuare.

Non ci sono molti dubbi sul fatto che queste prescrizioni siano qualificabili come trattamenti inumani e degradanti.

Su questi temi urge che giuristi e società civile si interroghino ancora più nel profondo di quanto fatto finora, affinché si avvii un processo di riforma che metta al centro l’Uomo e la vita umana. Cospito è detenuto per la gambizzazione dell’AD di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, per aver promosso e diretto la Federazione Anarchica Informale e per degli attentati, pur in assenza di morti o feriti. “La gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua, ma deve passare in secondo piano”. Lo ha scritto alcuni giorni fa, sulle pagine di Avvenire, un gruppo di giuristi in un appello al Guardiasigilli e urge ribadirlo. Né si può considerare un ricatto il gesto di chi sceglie di rifiutare il cibo e con esso la vita per manifestare il proprio disagio. Si rischierebbe di tradire la nostra Costituzione, che pone ai vertici, tra i valori che lo Stato è chiamato a proteggere, la vita umana e la dignità della persona. “Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli stati democratici e i regimi autoritari.”, continua l’appello.

Se da un lato è evidente che il pericolo di ulteriori azioni criminali vada sterilizzato, è altrettanto chiaro che non si possa restare indifferenti rispetto ad una morte certa. La scienza giuridica è abbastanza avanzata per individuare modalità alternative altrettanto efficaci per garantire la sicurezza dei cittadini, senza perdere di vista l’umano. Applicando i principi di extrema ratio, proporzionalità e sussidiarietà si può trovare una soluzione che raggiunga l’obiettivo securitario senza scadere in un trattamento degradante. Questa scelta scongiurerebbe anche i rischi eversivi che in questi ultimi giorni si stanno manifestando in tutta Europea. Il richiamo è quello che la politica lasci da parte le proprie logiche a favore di una scelta di coraggio e umanità.