Viviamo nell’epoca del nuovo caos globale, dell’emergenza permanente, del succedersi di contingenze impreviste e ingovernabili: la cifra dell’attualità è innanzitutto il dis-ordine. Per questo i richiami all’ordine hanno particolare fascino. Stabilità, pace e tranquillità sono il punto di forza di letture della realtà che si sono tradotte anche in proposte politico-istituzionali.

Ma si fa presto a dire ordine. La nozione che il “fare ordine” evoca un’esigenza di sicurezza. Il concetto di ordine sembra, quindi, inestricabilmente intrecciato a quello di autorità. Come nell’endiadi “legge-e-ordine”, il raggiungimento dell’“ordine” è visto come conseguenza di un atto d’imperio: il rispetto della legge, in quanto atto che promana dal detentore della potestà politica, è condizione di esistenza e di inveramento dell’ordine. Emerge una prospettiva di “ordine” tutt’altro che amichevole e tranquillizzante. In questa rappresentazione, “ordine” non è altro che l’affermazione del potere dello Stato, attraverso la rimozione degli ostacoli all’osservanza della sua legge, ossia del comando per eccellenza, che promana dal soggetto munito della sovranità. In quest’ottica, è chiaro che bisogna dare per acquisito che diritto e giustizia vivono in sfere differenti e separate: per il diritto, l’unica giustizia che rileva è la giustizia “legale”, in cui il problema della validità delle norme si pone nel senso affermato con esemplare chiarezza da Hans Kelsen: le leggi devono essere obbedite se, e nella misura in cui, “semplicemente […] sono state poste in una data maniera o poste da una data persona”. Lo Stato fa – crea – la legge, la legge va obbedita, ed è la forza repressiva dello stato che “fa ordine”. È questo (semplificando) l’ordine “dei moderni”. Ma esso si pone su una soglia difficile, pericolosa: la Storia insegna che invocare il pieno dispiegamento dell’uso (pur legittimo) della forza da parte del suo monopolista (lo Stato) è anticamera di ogni autoritarismo[1].

Ma è l’”ordine pubblico” l’unico ordine possibile? Siamo abituati a pensare che sia così, ma questo discende da un percorso durato secoli, attraverso il quale si sono appannati significati antichi e profondi, e sono state rimosse radicazioni alternative e ricchissime, della parola “ordine”. Perché ciò avvenisse sono stati necessari passaggi tutt’altro che scontati. Oggi, quanti di noi dissentirebbero dalle affermazioni di Hobbes nel Leviatano, secondo cui “non è la sapienza che crea la legge” e che la creazione norme giuridiche “non dipende dall’aver letto molti libri?”. Eppure, queste affermazioni, il cui corollario è quello della intrinseca razionalità della legge come comando sovrano, al tempo della loro prima formulazione potevano a buon diritto parere sovvertitrici di una consolidata, ed opposta, tradizione.

Per la mentalità dell’uomo medievale, erede in questo anche (almeno di una parte) della cultura classica, era vero proprio il contrario: ius quia iustum, non ius quia iussum. La partecipazione della legge positiva alla razionalità naturale, il suo porsi in accordo con la ragione – che guida l’uomo alla scoperta della giustizia – è il fondamento dell’autorità: veritas facit legem. Il principio fondamentale che reggeva la comunità politica era quello per cui il comando del detentore dell’autorità doveva essere necessariamente in accordo con la verità, conoscibile con la retta ragione. Questo era anche il perimetro invalicabile della legittimità del comando stesso. Dunque, a nutrire e dare sostanza al comando era il suo disporsi secondo ragione e il suo disporsi verso la verità, il suo essere conforme – appunto – a un Ordine (Ordo) universale. Per San Tommaso d’Aquino la legge stessa, lex, non è certo un comando sorretto dal “nudo” potere, ma una rationis ordinatio ad bonum commune, un orientarsi di ragione verso il bene comune.

Una condivisione generalizzata di principi e significati è la premessa e chiave perché possa funzionare, nella realtà della vita politica, questa elegante armonia, in cui tutti i componenti della comunità sono, secondo il loro stato e grado, inseriti e partecipi; perché si regga questo equilibrio, in cui sembra non esservi spazio per la costrizione e la violenza, se non come rimedio ultimo, per sé limitato, all’infrazione dell’ordine – tutt’al contrario di quel che accade nel mondo moderno, dove l’ordine stesso è dynamis sovrana, quindi costrizione (ossia violenza) agita. Un simile ordine giuridico, nella sua forma più pura e risolta, non è mai stato attinto, nemmeno in quel “Medioevo del diritto” che, insegnano gli storici contemporanei, è stato anzi anche, e non meno, “Medioevo del potere”. E oggi, al di là di tutto, manca anche la base minima per riaffermare, in termini di programma attuabile, questa idea di ordo: nella società del pluralismo conflittuale, dell’istantaneità dell’informazione, della perdita delle categorie, continuare a insistere in un ritorno a quest’ordine, che si potrebbe definire “degli antichi”, sarebbe velleitario[2].

Ma se l’ordine “dei moderni” spaventa e quello “degli antichi” è perduto per sempre, possiamo sperare in un ordine per l’oggi? E, se sì, in quale? Occorre, forse, innanzitutto ritornare al significato più antico della parola “ordine”. L’etimologia di ordo rimanda al mondo della tessitura, dove indicava il disporsi dei fili in una trama regolare. I filologi ritengono che la radice di ordo sia quella stessa *ar, *or che si ritrova nel latino orior e ordior (“sorgo” e “comincio”) come nel greco ornymi (“faccio andare”). Identica radice del sanscrito Ṛta, che, come concetto fondamentale della religione vedica, indica esattamente l’ordine del cosmo, ma un ordine che è il risultato – semplificando – di un farsi, anzi di un “muoversi in modo appropriato”.

Quindi l’ordine, volendo ricostruirne daccapo un senso, è sicuramente qualcosa di molto distante dalla ristretta accezione securitaria oggi (ancora) prevalente: è armonia riconoscibile, oggettiva, ancorata alla verità; ma non è mai, né può essere, immobilismo. È il paziente lavoro del contadino che smuove le zolle, il ritmo regolare e attento del lavoro al telaio. Un movimento inteso a disporre, orientare, rendere coerente e regolare ciò che in partenza è grezzo e disordinato.  La dinamicità dell’ordine non è affatto in contrasto con la sua perennità; anzi, solo questa compresenza accoglie pienamente la dimensione dell’umano, che è inserita nella storicità.

A fronte della insufficienza conclamata dello Stato (anche dello Stato costituzionale) e dei suoi meccanismi di integrazione, che non possono però ad oggi essere rinnegati e abbandonati (non esiste alcun modello alternativo), c’è forse la possibilità di vivere un impegno ulteriore nella comunità politica come chiamata alla realizzazione dell’Ordine, un impegno che può procedere dal civis, dal basso, dalla prossimità, vivendo la sua natura “aperta” e perfino la non attingibilità della pienezza dell’Ordo non come limite, ma come un orizzonte che segna la traiettoria del cammino. L’atto del “portare ordine” nella conflittualità del corpo sociale, in questa prospettiva, può e anzi deve prescindere dal richiamo “salvifico” al potere pubblico, proprio perché, paradossalmente, l’idea stessa di “Stato di diritto” possa mantenersi vitale, in una “alternativa realistica” che – pur accentuandone i caratteri di conflittualità – Danilo Zolo nell’opera Lo stato di diritto tracciava con lungimiranza, come possibile via da esplorare, esattamente venti anni fa. Da posizioni molto diverse, ma in un dialogo ideale (chi scrive ne è convinto) assai fecondo, l’allora card. Ratzinger esortava, più o meno in contemporanea, i cristiani a un “grande compito”: “far sì che la ragione funzioni in pienezza, non solo nell’ambito della tecnologia e del progresso materiale del mondo, ma anche e soprattutto per quanto riguarda la sua capacità di cogliere la verità e di riconoscere il bene, che è la condizione del diritto”[3].

Se crediamo davvero che “il bene è la condizione del diritto”, e che la giustizia, non la violenza, deve sorreggere la comunità politica, possiamo iniziare a pensarci come costruttori di ordine, particelle in relazione, intenti a tessere con cura, amore e coraggio l’ordito di un nuovo umanesimo civile.

[1] Si produce, così, quello che la “dottrina pura del diritto” kelseniana voleva evitare (e che, va dato atto, sempre intende evitare il miglior positivismo). Sarebbe facile affermare che la dottrina giuridica dei regimi totalitari è, a sua volta, spesso e volentieri anti-formalista e realista. Ma il positivismo è un’arma a doppio taglio. Si ricordi che i giuristi nazionalsocialisti più ortodossi, in polemica con Schmitt (dopo il suo progressivo allontanamento dal ruolo di Kronjurist hitleriano) erano convinti assertori del fatto che il Terzo Reich fosse comunque un Rechtsstaat (Stato di diritto) in quanto “Stato legale” ossia Gesetzstaat. Cfr. P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 18.

[2] D’altronde, già Aristotele affermava che è la concordia, l’amicizia civile (ma, letteralmente, il pensarla allo stesso modo) – omònoia – a rappresentare il fondamento delle città (Etica Nicomachea, VIII, I, 1155a), antidoto alla stàsis (la paralisi che consegue alla perennità delle lotte intestine), il terribile nemico che, invece, le mina dall’interno fino a distruggerle. Omònoia è quindi la premessa per la costruzione, in ultima analisi, anche del retto ordinamento politico, nel quale comanda il logos e “il governante è custode del giusto”. L’impossibilità di conseguire quella concordia comporta, per necessaria conseguenza, che si debba abbandonare come irrealizzabile anche una forma politica in cui il diritto e la giustizia siano pienamente osmotici. Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1134b, si cita dalla trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 199.

[3] Guerra, ricostruzione e l’eredità del secondo dopoguerra. Quattro discorsi in occasione del sessantesimo anniversario dello Sbarco degli Alleati in Francia, ora in J. Ratzinger – Benedetto XVI, Testi Scelti. Vol. 3 – La vera Europa. Identità e missione, a cura di P. Azzaro e C. Granados, Cantagalli, Siena, 2021, p. 68.