di Alessandra Luna Navarro e Marco Fornasiero*
«Pensate almeno ad una persona, ad una persona vicina a voi che nel 2030 sarà ancora viva… e pensate a come questa persona dovrà vivere se noi non rispettiamo il limite di 1.5 gradi». Con queste parole, all’indomani della fine della ventiseiesima conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite (COP26), il vicepresidente dell’UE, Frans Timmermans, cercava di dare forza ai 40.000 delegati di tutto il mondo che si trovavano a Glasgow per discutere quali policy ed impegni assumere per limitare il surriscaldamento globale. Ad un mese dalla fine della grande conferenza sul clima organizzato dalle Nazioni Unite, e a poche settimane dall’inizio del 2022, la transizione ecologica sembra ancora lontana.
Negli ultimi anni, la mancanza di un approccio integrale, sistemico e cooperativo volto ad affrontare la crisi ambientale ha portato a soluzioni frammentarie, di efficacia limitata e insufficienti a contenere l’innalzamento delle temperature, l’inquinamento e la povertà energetica. La transizione “green” è ancora troppo lontana. La successione sempre più frequente di eventi climatici estremi e inaspettati sottolinea l’urgenza e la necessità di cambiare passo nella lotta al cambiamento climatico prima che sia troppo tardi, evitando di raggiungere il cosiddetto “tipping point” – il punto di non ritorno – dopo il quale le conseguenze dell’innalzamento delle temperature saranno catastrofiche e irreversibili. Non ci sarà, però, nessun cambio di passo senza un’apertura verso «categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano» e della sua relazione con l’ambiente – la “casa comune” – come ricordato da papa Francesco.
È la dimensione umana e sociale della transizione ecologica a mancare ancora nelle strategie attuali. Quando presente, si accenna solo timidamente. Occorre invece sostenerla con convinzione per inserirla nelle policy fin dall’inizio. Altrimenti si perde l’enzima essenziale della transizione, l’unico capace di accelerare e portala a termine: la fraternità sociale. È dimostrato che quando i cittadini partecipano attivamente all’adozione di misure sostenibili, grazie a campagne di sensibilizzazione, iniziative e mobilitazioni, le transizioni riescono ad essere molto più veloci ed efficaci, come nella campagna di sensibilizzazione fatta negli anni passati per arginare il buco dell’ozono. La fraternità sociale è essenziale per la transizione e la sua assenza dalla discussione è stata il primo grande problema di Glasgow.
Occorreva, invece, porre la fraternità sociale come principio base in ogni tavolo di lavoro. In primis, una fraternità fatta di mediazione, di ascolto, di comprensione: l’unica capace di generare le promesse giuste. Almeno nel rispetto dei compromessi già presi. Nel 2009, i paesi industrializzati (the “rich countries”) avevano promesso 100 miliardi di dollari per sostenere i paesi in via di sviluppo nella transizione ecologica, ma alla fine soltanto 80 miliardi sono stati donati. Alla COP26 si è parlato molto di transizione socialmente “giusta”. Ma più che un aiuto di solidarietà da parte dei paesi che si sono già sviluppati, bruciando i combustibili fossili all’origine della causa antropica del cambiamento climatico, i paesi in via di sviluppo chiedono un indennizzo morale ed un aiuto economico sostanziale verso il costo della decarbonizzazione. Come è noto, per attuare la transizione saranno necessari molti fondi e investimenti. Lo stesso Next Generation EU (NGEU), il programma al cui interno è inserito il Recovery and Resilience Facility (RRF – lo strumento per la ripresa e la resilienza) emetterà, entro giugno 2022, 50 miliardi di euro in obbligazioni a lungo termine per sostenere la transizione. Solo nel 2021, la Commissione aveva già raccolto 71 miliardi per il programma NGEU, di cui 12 miliardi derivanti dalla prima emissione di obbligazioni “verdi”.
Ad un certo punto, però, la fraternita sociale è riemersa a Glasgow, come si evince anche dalle sopracitate parole di Timmermans. Solo a quel punto si sono fatti veri passi avanti, ad esempio tramite la promessa da parte dei paesi sviluppati di duplicare i finanziamenti economici per le opere di protezione e adattamento climatico o ancora con la promessa di discutere anche nel breve termine un ambizioso “post-2025 climate-finance deal”.
In questo l’Europa è stata precursore. La Commissione europea ha affrontato in maniera strutturale il tema del costo economico della transizione per i cittadini. Il carattere sociale costituisce quindi l’elemento chiave che tiene insieme le riforme e gli obiettivi che le istituzioni europee si sono poste con il Green Deal. La presentazione del pacchetto “fit for 55” (avvenuta il 14 luglio 2021) ha costituito la proposta più ambiziosa che l’Ue abbia mai presentato in termini di riforme legislative energetiche, soprattutto per alcune innovazioni che riguardano il carattere di fraternità sociale della transizione. Ad esempio, proponendo l’istituzione di un fondo sociale per il clima che aiuti le fasce più deboli ad affrontare il costo della transizione. Tale fondo, grazie al sostegno dato dal bilancio europeo e dal Sistema per lo scambio delle quote di emissione Ets, genererà per il periodo 2025-2032 circa 72,2 miliardi di euro, con cui gli Stati membri potranno sostenere i cittadini nell’attuazione della transizione energetica.
Un altro esempio di misura in cui emerge la dimensione sociale è la tassonomia finanziaria proposta dall’UE. Il 12 luglio, la “Platform on sustainable finance”, organo consultivo della Commissione europea, ha presentato una proposta di tassonomia sociale che dovrà supportare i finanziamenti che garantiscono lavoro, sviluppo di comunità inclusive e sostenibili, alloggi e assistenza sanitaria a prezzi accessibili. In questo modo, alla tassonomia ambientale si aggiunge quella sociale per garantire una maggiore trasparenza per gli investitori sugli impatti e le performance sociali ed ambientali degli investimenti. In quest’ottica, è molto importante che ci sia un coordinamento con altri provvedimenti europei che definiscono i requisiti sociali minimi nelle aziende.
Includere la fraternità nella transizione ecologica è un processo complesso, in cui è necessario l’ascolto dei territori per poter commisurare e contestualizzare gli standard sociali della tassonomia con le peculiarità dei contesti locali. L’ascolto dei territori può evitare la standardizzazione abbia l’effetto distorto di cristallizzare diseguaglianze in differenti contesti socioeconomici, permettendo invece alle nuove soluzioni tecnologiche di migliorare la vita dei cittadini, riducendo al contempo il fabbisogno di risorse. Il passaggio di scala nell’utilizzo dell’energia rinnovabile, l’adozione di nuove stringenti misure di efficienza energetica e l’implementazione sistemica di nuove tecnologie per l’abbattimento delle emissioni, comporteranno cambiamenti radicali, che altrimenti colpiranno in maniera diseguale settori, comunità e Paesi diversi.
La crisi ambientale richiede di mettere al centro una nuova visione di quelli che sono i servizi e i bisogni fondamentali di cui sentiamo avere necessità, per poi progettare un modo sostenibile per attuarli e soddisfarli. Il consumo di risorse energetiche e naturali è finalizzato a fornire le condizioni necessarie al benessere delle comunità. In tal senso, un esercizio di discernimento collettivo per il raggiungimento del benessere integrale della persona e della comunità rappresenta il primo passo della transizione ambientale.
A Glasgow si sono fatte promesse con scadenze temporali precise e tutti noi abbiamo un ruolo nel rispettarle creando fraternità. Infatti, è stato stimato che i cosiddetti behavioural changes saranno responsabili da soli di una riduzione del 10% del fabbisogno energetico mondiale entro il 2050. L’umano è il punto di partenza e di arrivo della transizione ambientale. Dalla conferenza sul clima di Glasgow deve ora nascere una nuova stagione di cooperazione internazionale e amicizia tra Paesi. Il seme della speranza, radicato nei nostri cuori, risorge sempre e quando riusciamo a «costituirci in un “noi” che abita la casa comune» allora siamo capaci di creare spazi di «corresponsabilità capaci di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni». Lo dimostra il frutto più bello di Glasgow: le alleanze locali che sono nate tra singoli paesi, associazioni, istituzioni territoriali e imprese con l’obiettivo di affrontare insieme la transizione. La stampa internazionale le ha chiamate “coalitions of the willing” -coalizione dei volenterosi – eppure noi non dobbiamo avere paura di chiamarle alleanze e vedere in queste alleanze il frutto tangibile del cambiamento che la fraternità opera nel mondo.
*Il testo è stato pubblicato nel Dossier di ottobre di Vita Pastorale curato da Comunità di Connessioni