di Giuseppe Morgante
Un silenzio assordante. Eppure, la questione non è certo di poco conto: il prossimo 12 giugno i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimersi sui referendum abrogativi in tema di giustizia. E il raggiungimento del quorum non è scontato. Di questo appuntamento elettorale non si parla abbastanza, forse anche a causa delle divisioni sul tema all’interno dell’opinione pubblica e tra le forze politiche. È vero che la magistratura ha perso terreno nelle classifiche sulla fiducia dei cittadini: la sua azione è percepita come non sempre coerente con gli alti valori della giustizia e della trasparenza. Un’assenza di credito frutto anche di alcuni recenti scandali e della frequente contrapposizione mediatica tra politica e magistratura, da cui emerge, a volte, l’immagine di un ordine giudiziario corporativo, la cui indipendenza è messa a rischio dalle dinamiche interne, apparentemente regolate da logiche di correnti e cordate.
Le istanze di cambiamento avvertite nel dibattito generale sono state raccolte dalla ministra Marta Cartabia, la cui riforma, pur temperata da una mediazione parlamentare (ancora in corso), ha suscitato forti proteste da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM). È stato indetto persino uno sciopero dei magistrati, al quale ha aderito una minoranza, che ha fatto pensare ad un contrasto tra poteri dello Stato, con l’effetto di far percepire ancor più opportuno un radicale cambiamento. Sugli stessi temi della riforma Cartabia vertono i quesiti referendari che, rispondendo ad una medesima istanza di giustizia, riguarderanno le modalità di elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), la valutazione dei magistrati, la separazione tra le carriere e le esigenze cautelari nel processo penale.
Andiamo a vedere quali quesiti sono posti agli elettori, anche per interrogarci sulle eventuali opportunità di raccogliere la sfida lanciata dalle singole questioni, pur tenendo ben presente che il primo e principale obiettivo di una riforma della magistratura dovrebbe essere il ripristino della credibilità della stessa agli occhi dei cittadini, attraverso la costruzione di istituzioni governate da regole chiare, che responsabilizzino i magistrati nel rispetto del principio della separazione dei poteri.
Dunque, i cinque quesiti referendari, giudicati ammissibili dalla Corte Costituzionale, riguardano:
- L’elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei magistrati, che ne regola la carriera e ne giudica le condotte disciplinarmente rilevanti.
Il CSM, presieduto dal Capo dello Stato, è composto dal Primo Presidente e dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione e da ventiquattro membri eletti per 2/3 da tutti i magistrati (togati) e per 1/3 dai membri del Parlamento riunito in seduta comune (laici). L’eventuale vittoria del referendum cambierebbe l’attuale sistema di elezione dei membri togati, non rendendo più necessaria la raccolta di firme ad oggi richiesta per presentare la candidatura al CSM. Ciò, nell’ottica dei proponenti, dovrebbe limitare l’influenza delle correnti. È necessario interrogarsi sul ruolo che hanno svolto fino ad oggi le “correnti” nel CSM: si tratta di “cordate” volte a promuovere la carriera dei membri o si tratta di espressioni di diverse concezioni legittime del modo di interpretare e amministrare la giustizia?
- La valutazione della professionalità e della competenza dei magistrati, adesso effettuata dal CSM tenendo in considerazione le valutazioni effettuate dai magistrati che compongono organismi territoriali (i Consigli giudiziari).
Il referendum propone di far partecipare alla valutazione dei magistrati anche gli avvocati e i professori universitari già membri dei Consigli giudiziari. È stato affermato che coinvolgere non magistrati nella valutazione ne intaccherebbe l’indipendenza, rendendo i giudici suscettibili a possibili pressioni e condizionamenti provenienti dall’esterno. Ma davvero l’autoreferenzialità, che fino ad oggi ha permesso valutazioni quasi sempre positive anche in presenza di gravi criticità, è garanzia di libertà e autonomia? Sottoporre la magistratura anche ad altre istanze di giustizia può renderla più efficiente e sensibile?
- La separazione delle carrieredei magistrati sulla base delle funzioni giudicanti e requirenti.
L’esito positivo del referendum imporrebbe ai magistrati di scegliere la funzione giudicante o requirente e di mantenerla per tutta la carriera. La separazione delle carriere è un elemento fondamentale di molte democrazie occidentali, nelle quali difesa e accusa si fronteggiano alla pari di fronte ad un giudice terzo. Nella direzione di limitare la mobilità tra le due carriere si muove anche la riforma Cartabia, la quale prevede il limite di un solo passaggio tra le due funzioni. Il passaggio tra funzioni giudicanti e requirenti mette a rischio la terzietà del giudice? Ma forse, ancor più radicalmente, è legittimo domandarsi se l’appartenenza del pubblico ministero e del giudice allo stesso ordine possa far dubitare che accusa e difesa non siano sullo stesso piano?
- I limiti alla carcerazione preventiva, impedendo la possibilità di sottoporre alla carcerazione preventiva in ragione della possibilità “di reiterazione del medesimo reato”.
I proponenti ritengono che vi sia un abuso delle misure cautelari. Certamente hanno ragione nel ritenere che, in linea di principio, sarebbe auspicabile ricorrervi il meno possibile, in quanto lesive della libertà personale. Tuttavia, è necessario chiedersi se sia il referendum abrogativo lo strumento giusto per modificare una questione, di natura processual-penalistica, che rischia di avere delle conseguenze non prevedibili sul piano della pubblica sicurezza.
- L’abrogazione della “legge Severino”,che prevede l’incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, per i consiglieri regionali, per i sindaci e per gli amministratori locali in caso di condanna (nel caso di amministratori locali anche di primo grado).
Con la vittoria del sì al referendum, verrebbe abrogato l’automatismo che impone l’applicazione dell’incandidabilità, ineleggibilità o decadenza, lasciando così al giudice la facoltà di applicare l’interdizione dai pubblici uffici in caso di condanna. È corretto l’automatismo che impone di applicare una pena accessoria con conseguenze irreversibili sul funzionamento della democrazia, oltre che nei confronti delle libertà del condannato, anche nel caso di sentenze di primo grado, ancora non definitive? È proporzionata l’applicazione di una pena accessoria, con effetti così invadenti, anche a reati minori e dal perimetro controverso? È davvero molto chiaro che i referendum trovino fondamento in un’avvertita esigenza profonda di giustizia. Ma in ogni caso, a prescindere dall’eventuale loro accoglimento, questi non saranno la panacea che determinerà un radicale rinnovo, anche sul piano etico, della magistratura.
Per amministrare la giustizia, e dunque per governare la Magistratura, è necessario mettere in pratica quelle virtù richiamate da papa Francesco: «la credibilità della testimonianza, l’amore per la giustizia, l’autorevolezza, l’indipendenza dagli altri poteri costituiti e un leale pluralismo di posizioni», che diventano «gli antidoti per non far prevalere le influenze politiche, le inefficienze e le varie disonestà». In questa prospettiva, la magistratura può recuperare il proprio ruolo di «presidio e sintesi alta dell’esercizio» a cui i giudici sono chiamati[1]. È necessario che questi valori siano il faro che guiderà il discernimento di noi cittadini nel voto dei referendum, dei nostri politici nel raggiungere un compromesso parlamentare sulla riforma e, soprattutto, dei nostri giudici nel governo della magistratura e nell’amministrazione della giustizia.
[1] Cf. Papa Francesco, discorso al CSM, 8 aprile 2022, disponibile a questo indirizzo.