Secondo la definizione del vocabolario Treccani, inclusione è “l’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto”.

Includere non significa annullare per ricomprendere le diversità in un tutto ma, all’opposto, riconoscerle perché quel tutto sia una sintesi tra di esse, superiore alla loro somma. Secondo la filosofia di Leibniz, l’armonia è sempre sintesi delle diversità. Come accade in una sinfonia, sintesi di consonanze e dissonanze, o nel chiaroscuro dei pittori, sintesi di luci e ombre.

Sono almeno tre le principali leve dell’inclusione.

La prima è la Costituzione, che afferma che senza diversità non c’è uguaglianza, ma solo identità. Basta un semplice esempio a comprenderne il senso: due persone possono essere uguali per il colore dei capelli ma diversi per quello della pelle o per l’altezza.

Il dettato costituzionale è la conseguenza dell’ideale personalista che ha ispirato i Padri Costituenti, secondo cui ciascuna persona fiorisce grazie alle diversità dell’altra e nell’altra. Secondo Foucault, grazie a questa dinamica la vita si trasforma da esistenza biologica (zoê) in esistenza qualificata (bíos). Mounier, uno dei più importanti filosofi personalisti, la definisce un’avventura in cui l’uomo è impegnato sin dalla nascita, ovvero pre-occupato.

Altra straordinaria leva di inclusione è la dottrina sociale della Chiesa, che esclude l’ottica solipsistica e afferma che la persona vive di una relazione comunitaria nel contesto di diversità in cui è inserita. Nell’enciclica Fratelli Tutti, papa Francesco ci richiama al dovere di accogliere le diversità dell’altro, facendocene prossimi, riconoscendolo come un fratello. È la dinamica che governa l’atteggiamento del buon samaritano il quale, nel soccorrere l’ebreo, supera le divisioni dovute alla differente estrazione religiosa.

Infine, anche il diritto del lavoro ha fatto da leva per l’inclusione su diversi terreni. Quello della parità di genere, dell’accomodamento ragionevole in favore dei disabili, della tolleranza religiosa, razziale, politica e sindacale. Leggi come lo Statuto dei Lavoratori, il Testo Unico sulla Maternità e sulla Paternità, il Codice delle Pari Opportunità sono solo alcuni esempi.

Ebbene, qualcosa non ha funzionato. Nonostante le spinte, l’inclusione resta schiacciata al suolo. Ed anzi, aumentano gli “esclusi”, soprattutto donne, giovani, immigrati, disabili e, più in generale, le persone fragili, la cui diversità coincide con la loro debolezza.

Le ragioni di tale anomalia sembrano due.

La prima è che la legge non è riuscita a tradurre, fino in fondo, l’idea di uguaglianza costituzionale, su cui l’inclusione si regge. Più che riconoscere le differenze, ha commesso infatti l’errore di omologarle, di annullarle “in quel tutto”. È scivolata in quello che Norberto Bobbio ha definito “egualitarismo”. Emblematico il paradosso delle lavoratrici, a cui, integralmente “omologate” ai lavoratori, è stato sottratto il diritto alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro che l’articolo 37 della Costituzione garantisce.

La seconda ragione risiede nell’incapacità della legge, da sola, generale ed astratta, di illuminare le diversità di ogni singola persona. La legislazione sull’inclusione è stata sino ad oggi di stampo verticale, la persona è stata scomposta in silos: sesso, disabilità, religione, razza, politica, appartenenza sindacale. Ma la persona non è scomponile, è un universo in evoluzione, con il suo vissuto, la sua coscienza, la sua spiritualità e il suo futuro.

Continuare su questa strada, rischia del resto di moltiplicare all’infinito le leggi sino alla trappola del “cattivo infinito” che Hegel rimproverava a Fichte.

È chiaro: i processi di inclusione raggiungeranno il traguardo quando l’idea di uguaglianza costituzionale brillerà della stessa luce sotto la quale è nata e le leggi, in un ‘ottica di sussidiarietà, tracceranno le cornici entro cui le comunità, territoriali o aziendali, forti della conoscenza delle persone che ne fanno parte, potranno scrivere i diritti sulle diversità. Solo così includere equivarrà davvero a quell’atto “di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto”.