di Francesca Carenzi
L’Amazzonia, con i suoi 6.700.000 km quadrati, è la più grande foresta pluviale del pianeta. Uno sterminato manto verde ricco d’acqua, di biodiversità e di natura incontaminata. Ma, nel solo mese di maggio 2022, sono stati registrati 2.287 incendi: 900 chilometri quadrati di foresta andati distrutti.
Le organizzazioni internazionali denunciano continuamente sfregi a territori e popolazioni protetti. Secondo quanto riportato dalla Funai, l’agenzia nazionale brasiliana che difende le popolazioni native, l’estrazione illegale di materie prime da zone della foresta amazzonica, in cui ogni tipo di attività estrattiva è vietata, sarebbe favorita dal Presidente del Brasile Jair Bolsonaro e dal suo governo (Internazionale n°1465, Uol)
Eppure, entrando nelle sale del Museo Maxxi di Roma, dove sono allestite le duecento opere che compongono Amazonia, l’ultimo lavoro del fotografo brasiliano Sebastiao Salgado, nulla riporta alla mente le immagini mortifere a cui siamo abituati, legate allo sfruttamento dei terreni e delle risorse. Si è immersi in panorami mozzafiato. Nuvole immense, distese di acqua e di alberi lasciano sgomenti con la loro imponente bellezza. Salgado sa, e con la sua scelta ce lo dice, che la bellezza può essere la chiave con cui toccare il cuore di chi guarda le sue fotografie.
Durante il suo reportage sulle migrazioni, dopo anni passati a documentare lo sfruttamento dei lavoratori e i cambiamenti d’epoca, si è ritrovato a fotografare il genocidio del Rwanda. Questa esperienza lo segna profondamente. “Troppa morte dentro”, racconta lui stesso, e smette di fotografare. Lavorando la terra nella fazenda brasiliana di famiglia riscopre la vitalità e quel senso di speranza che la natura e il creato portano intrinsecamente dentro. Così riprende a fotografare: non più la violenza umana ma la maestosità della Terra. Un percorso che lo porta a Genesis (2013), forse la sua opera più conosciuta, in cui riscopre che un “paradiso” esiste, qui e ora. Il racconto del paradiso, come ama definirlo, continua con Amazonia (2021).
Quella di Salgado non è un’esortazione a tornare ad un passato ideale, non suggerisce di abbandonare la vita contemporanea. È, piuttosto, un richiamo a non perdere di vista i “punti di riferimento”: “il nostro istinto, la nostra spiritualità. I fondamenti della nostra vita, finora, sono stati il nostro senso di appartenenza a una comunità e la nostra spiritualità. Questo è quanto ho voluto mettere nelle mie foto” (Sebastiao Salgado, Dalla mia terra alla Terra). La nostra spiritualità e la nostra comunità umana si costruiscono anche nella cura del Creato, la “casa comune”. C’è un senso di responsabilità che deriva da un dono prezioso ricevuto gratuitamente, la consapevolezza che l’Amazzonia, la Terra e la loro bellezza fanno parte di un futuro fragile.
Anche Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Querida Amazonia (2020), lo sottolinea: “sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste”. E continua: “abusare della natura significa abusare degli antenati, dei fratelli e delle sorelle, della creazione e del Creatore, ipotecando il futuro”. La ferita provocata dalle logiche consumistiche e di potere che in questi anni ha dilaniato la terra va risanata. L’intuizione degli ultimi lavori di Salgado è il cambio di approccio, la scelta di una diversa commozione in un mondo ormai assuefatto alle immagini di violenza. Commozione nel senso originale dell’essere mossi: un turbamento nell’animo e il farsene sorprendere, il desiderio di essere coinvolti e implicarsi.
La spiega Mario Calabresi nell’introduzione al suo dialogo con il fotografo: “da quasi vent’anni ha scelto di farci vedere quanto sia bella e straordinaria la Terra, per mandare il messaggio più forte: <questo è ciò che abbiamo e che dobbiamo tenerci stretto>. Se penso ad un grande progetto sull’Amazzonia, che vuole salvare l’Amazzonia, immagino un progetto che parta dalla denuncia, dalla distruzione dell’Amazzonia. Invece Salgado ha fatto sua la lezione di Dostoevskij, che la Bellezza, proprio la Bellezza, salverà il mondo” (dal podcast Altre storie).
Con il suo sguardo di poesia e di spiritualità l’artista indica la direzione in cui rivolgere il nostro sguardo. Al di fuori delle logiche commerciali, frettolose e consumistiche, di una società aggrappata alla tecnica e ai numeri, proprio qui, forse, può avvenire il vero cambiamento. Educando lo sguardo, lasciandoci ferire come Salgado, ferito dallo splendore della Terra. Guardando ciò che c’è, la maestosità del creato, dell’uomo e della realtà, seguendo l’esempio di chi vive in comunione con la bellezza e sa generare parole o immagini vive. Imparando a non lasciar cadere le intuizioni, a custodirle e meditarle in comunità. Altrimenti, scriveva Patrizio Barbaro nel suo ricordo di Pier Paolo Pasolini, il nostro più grande peccato sarà di “avere gli occhi e non saper vedere”.
Vedere la bellezza, vederla accadere, scoprirla negli angoli della vita quotidiana, non è un privilegio riservato ad artisti e poeti. È una responsabilità a cui tutti siamo chiamati perché, di nuovo con Patrizio Barbaro, “nel deserto delle nostre strade lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio”.