Il 2 marzo il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio alle vittime del naufragio, avvenuto domenica scorsa nelle acque di Steccato di Cutro in Calabria, dell’imbarcazione sulla quale viaggiava un gruppo di migranti. È rimasto in piedi davanti alle bare segnate solo da codici alfanumerici, prive di nomi, di alcun simbolo di umanità e di riconoscimento. È rimasto in silenzio, simbolo unitario del dolore del Paese di fronte a questa tragedia.

L’immigrazione suscita spesso sentimenti razzisti e sul tema le forze politiche si dividono strumentalmente. Eppure, di fronte agli esodi dei popoli, la storia ci insegna che le abitudini e le culture possono cambiare. Ci sono cambiamenti storici che non si possono arginare. Oggi siamo di fronte ad un bivio: da una parte assistiamo inermi alla fuga di chi cerca di salvarsi da guerre e miserie mentre, dall’altra, le economie europee soffrono la crisi demografica di un continente sterile, circondato però da popolazioni giovani e da Paesi in crescita.

Nei primi mesi del 2023 gli sbarchi di migranti in Italia sono triplicati: il 28 febbraio, erano 14.433 i migranti sbarcati rispetto ai 5.474 del 2022 e ai 5.033 dello stesso periodo dell’anno precedente. Con cifre simili non basta, dunque, accogliere fermandosi alla mera accoglienza. Ci sono domande morali che devono rimanere centrali per le società che accolgono come “chi è l’altro per me?” e l’insegnamento evangelico: «ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt. 25,35). Allo stesso tempo, la gestione culturale e politica del fenomeno migratorio spinge a chiedersi come gestire questi flussi di persone all’interno di una convivenza pacifica e democratica.

Nel dibattito pubblico non si fa riferimento allo ius communicationis, il principio internazionale che ispira le principali Convenzioni e Istituzioni di diritto internazionale in tema di immigrazione. Eppure tra il 1538 e il 1539, nell’Università di Salamanca, il domenicano Francisco de Vitoria, nella sua Relectio de Indis, fondava il diritto di ogni persona a potersi muovere sul territorio di altri Stati quale straniero o pellegrino. Egli scriveva: «è privo di umanità ricevere o trattare male gli ospiti e i pellegrini senza particolare motivo; al contrario, è umano e lecito accoglierli adeguatamente, a meno che gli stranieri rechino pregiudizio alla Nazione di arrivo». Da allora l’accoglienza si fonda su un sentimento di umanità, che si traduce in ospitalità, reciprocità nell’accoglienza e riconoscimento dell’altro in nome della comune appartenenza al genere umano. Su questo presupposto si sono scritte le Convenzioni internazionali, la governance sull’immigrazione e l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Invece la discussione politica sul tema dell’immigrazione è passionale, a volte violenta, spesso piena di polemiche che impediscono un dialogo costruttivo. Si rischia di considerare “cattivi” o “disobbedienti” le persone e le organizzazioni che salvano le vite umane in mezzo al mare. Papa Francesco ha usato i quattro verbi per descrivere un’azione politica che abbiano come obiettivo l’integrazione umana: “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. È un programma che non fa sconti e richiede un cambio di mentalità profondo della classe dirigente.

La Chiesa in Italia è impegnata in prima linea per l’accoglienza attraverso strutture e investimento ingente di risorse. Il Presidente della CEI, il Card. Matteo Zuppi, ha recentemente ricordato: “Bisogna aiutare i migranti a partire ma anche a restare”. Per farlo, però, occorre tenere insieme tutte le argomentazioni delle parti politiche: aiutare gli immigrati nei loro Paesi di provenienza, perseguire gli scafisti, creare corridoi umanitari, soccorrere in mare come obbligo morale e così via. Permettersi di scegliere alcune azioni ed escluderne altre, rischia di far pagare il prezzo più alto alle persone più deboli.

Rimane poi il tema di fondo: quale modello di integrazione vogliamo costruire? Fino a qualche anno fa l’integrazione avveniva in modo quasi naturale: gli immigrati sceglievano come meta i territori delle ex colonie, ad esempio gli algerini e i tunisini si spostavano in Francia, i pakistani, gli indiani e altri ancora in Inghilterra e i turchi in Germania. Attualmente però i modelli “assimilazionista” francese e quello “multiculturalista” inglese e tedesco sono in crisi.

La via francese all’integrazione si ispira ad una logica di uguaglianza tra gli individui e non al riconoscimento di diritti collettivi alle minoranze. L’inclusione avviene su base individuale attraverso l’accesso alla cittadinanza, fondato sullo ius soli. L’interazione è favorita dalla condivisione della stessa lingua, dall’accettazione degli stessi principi e dell’accesso allo stesso sistema di formazione scolastico.

Il modello “multiculturalista” inclusivo di paesi come Inghilterra, Olanda, Paesi scandinavi, riconosce giuridicamente non solo il singolo immigrato ma anche la sua comunità di appartenenza e permette alle minoranze culturali di partecipare alla vita sociale con i propri valori e tradizioni. Agli immigrati non si chiede di rinunciare alla propria cultura e tradizione, ma di rispettare le leggi e le regole democratiche. È il riconoscimento dei loro diritti collettivi che fonda la libertà degli immigrati.

Il modello “multiculturalista” esclusivo, presente in Germania, Austria ed altri Paesi, da una parte esclude politicamente e socialmente gli immigrati, ma dall’altra li riconosce con uguali diritti nella sfera socioeconomica in cui l’immigrato è accolto come lavoratore ospite. Questo modello ha permesso alle comunità di immigrati di conservare la propria lingua, praticare il proprio culto, continuare a mantenere le tradizioni del Paese di provenienza.

Il modello di integrazione italiano è ibrido: “assimilazionista” negli intenti e “multiculturalista” negli effetti. La legge n. 91/1992 sulla cittadinanza è tra le più severe in Europa e prevede che la cittadinanza possa essere richiesta dagli stranieri dopo 10 anni di residenza in Italia o dopo due anni di matrimonio con un cittadino o cittadina italiana. Nel Regno Unito e in Francia per ricevere la cittadinanza devono passare 5 anni mentre in Germania 8 anni. La normativa italiana sulla cittadinanza andrebbe integrata per permettere ai figli di immigrati che lavorano e pagano le tasse nel nostro Paese di acquisire la cittadinanza attraverso l’introduzione del principio di «ius soli temperato», che prevede la stabilità in Italia della famiglia di origine o un percorso di studi scolastico del Paese. Gli italiani di origine straniera sono 2,9%, eppure mancano ancora norme di dettaglio che coordinino le funzioni degli apparati addetti all’accoglienza e che regolino l’insegnamento delle leggi e della lingua italiana.

Le paure si vincono solo con l’incontro e il confronto, lo insegna la storia, l’alternativa è la paura o la guerra. Romano Prodi ricorda che in Africa serve un piano Europa-Cina per regolare i flussi migratori, una sorta di Piano Marshall per l’Africa. Alla domanda sulle paure dell’immigrazione, Prodi ha risposto: «Senza la guerra non mi farebbe paura niente. Le migrazioni sono sempre esistite. Ma queste non sono gestite. Tutte le cose non gestite fanno paura».

Lo sbarco degli albanesi nel 1987, seguito dall’esodo polacco e ucraino, ci dice che un’integrazione è possibile e, come allora, serve anche alle imprese e alle famiglie italiane. La sfida dei prossimi anni è simile a quella di ieri. Ma occorre distinguere tra una percezione fondata sulla paura e la realtà che si basa su studi, dati e su modelli culturali e umani.

 

*Fonte immagine: Presidenza della Repubblica