di Giulio Stolfi

Un dibattito andato a male – Lo scontro consumatosi appena poche settimane fa sulla proposta di legge ormai universalmente conosciuta come “ddl Zan” (dal nome del suo presentatore) lascia una ennesima, profonda ferita nel dibattito che da decenni si trascina nel Paese fra cattolici e non credenti intorno al tema dei cosiddetti “diritti civili”. Un confronto male impostato e peggio sviluppato ha visto l’interferenza di ambiguità e tatticismi, rivelatisi decisivi per l’esito parlamentare del testo, poiché gli hanno procurato un “affossamento” che non è conseguito ad una approfondita ed esaustiva sedimentazione della problematica nella coscienza collettiva, come sarebbe stato invece auspicabile.

La “sconfitta” del ddl, percepita come dovuta all’azione ostruzionistica e reazionaria di minoranze organizzate ed (indebitamente) influenti, non mette quindi capo ad un punto di equilibrio, bensì crea una faglia davanti alla quale, anche chi vedeva con preoccupazione la possibile introduzione nell’ordinamento delle disposizioni recate dal disegno Zan, dovrebbe avere ben poco da festeggiare. Risuona indebolita l’eco di argomenti che pure avrebbero meritato diversa condivisione, quale quello sulla scarsa tenuta del testo al vaglio di imprescindibili cardini del sistema penale (in particolare, avendo riguardo al principio di tassatività), così come di regole elementari dello Stato di diritto (l’anticipazione della tutela penale non può spingersi fino alla repressione di un semplice pensiero, e ciò a prescindere perfino dalla tutela della libertà di pensiero, che è, a ben guardare, altra e più sostanziosa cosa: cogitationis poenam nemo patitur).

Lo scopo di queste righe non è, però, quello di ricapitolare le ragioni pro o contra ddl Zan, né tantomeno quello di tentare di distillarne altre. La riflessione che va condotta è quella, oltre il merito del singolo (non-) provvedimento, sul contesto che continua a generare, come si è detto prima, una discussione perpetuamente inceppata. Deve essere detto molto chiaramente, allo stesso modo, che non può farsi questione di vaghi auspici al “dialogo” facendone carico integrale a due “parti” che muovono, su questo punto, da assunti di contenuto basati su presupposti affatto inconciliabili.

Due culture dei diritti inconciliabili. O no? – Si fronteggiano, infatti, due culture dei diritti la cui legittimazione e la cui impalcatura di merito conseguono a snodi fondamentali in mutua opposizione. Opposizione talmente forte che l’una parte spesso fatica perfino a riconoscere all’altra che, per l’appunto, essa esprime comunque una cultura dei diritti e non solo una, consapevole o meno, istanza negatoria (in un caso) o distruttiva (nell’altro). La visione tradizionale, radicata nel pensiero della Chiesa, si pone all’ascolto e alla contemplazione di un ordine che, per il suo essere “reale”, conoscibile con la retta ragione ed esterno al soggetto conoscente, non è per questo mero insieme di vincoli estrinseci, ma, al contrario, movimento vivo, tendente alla pienezza universale, che sola si raggiunge nel Cristo (“punto Omega” di una Evoluzione, per dirla con Teilhard de Chardin). Si tratta di un movimento del quale ogni persona (unità, anzi singolarità, costitutivamente in relazione con le altre) partecipa attivamente, nella costruzione di “legami di vita buona”, e non è inserita quale semplice destinataria di obblighi[1].

Anche la legge umana deve, quindi, essere innanzitutto momento con valenza ordinativa, non comando, e quindi non primariamente atto di volontà, imposizione (ossia sempre, in radice, esercizio di violenza), ma strumento di costruzione del bene comune e, insieme, di affermazione della libertà individuale. Il risvolto di questa concezione, naturalmente, è che il parametro ultimo di validità della legge positiva, e quindi anche di quella che attribuisce posizioni di vantaggio ai singoli, è la sua conformità a quest’Ordine. La cultura dei diritti della Tradizione della Chiesa è, pertanto, profondamente realista: non pretende di tracciare un catalogo “chiuso”, ma richiede un esercizio permanente di presidio di un punto di convergenza. In questo senso, l’azione del potere pubblico nel disegnare e attribuire posizioni di vantaggio ai singoli può essere vasta, ma è limitata, sia pur in modo mobile, dalla irriducibile esigenza che questa attribuzione non sconfini mai in un atto anti-umano, perché lesivo di una dignità intoccabile.

Non si tratta, quindi, di negare istanze di protezione, quanto piuttosto di vigilare perché l’azione dello Stato non si risolva in atti anti-umani, che si qualificano per tali poiché portano il marchio della violenza, innanzitutto sulla libera coscienza (es.: l’imposizione di modelli educativi e culturali, per quanto essi si qualifichino come “progressivi”, in quest’ottica è sempre atto in sé “regressivo”). Per chi scrive è l’autentica “cultura dei diritti cattolica”. La dogmatica, spesso ancora frettolosamente invocata da molti, dei “valori non negoziabili” sottende, al contrario, un’ambiguità di fondo, che rivela tracce di genealogie che, con l’antico e solido realismo che si è sommariamente abbozzato fin qui, hanno poco a che vedere. Esse, infatti, prescindono proprio dal postulato fondamentale della evidenza dell’Ordine: si parte, invece, dal riconoscimento del solo lume individuale, approdando, tramite l’interposizione dello Stato, a forme di normativismo tutte fondate in un’astrazione di qualche tipo e di necessità risolte in cataloghi chiusi di posizioni soggettive, che disegnano i confini del rapporto fra individuo e detentore della potestà politica.

Se si procede da questa prospettiva, che è poi la stessa della concezione dei diritti liberale, laica, moderna, diventa davvero difficile fermare la dinamica espansiva che conduce alla “scoperta” di sempre nuovi diritti. In questo senso, l’espansione indeterminata delle posizioni soggettive di vantaggio altro non è che un portato inevitabile del procedere della ragione umana lungo una traiettoria lineare. Il senso della linea è nel suo procedere in avanti, indefinitamente, verso la non-compressa affermazione del “diritto di avere diritti” (oggetto di uno degli ultimi saggi di Stefano Rodotà, convinto assertore di una dinamica espansiva quale quella appena tratteggiata). Per chi voglia preservare un catalogo contenutisticamente presidiabile, ossia “chiuso”, non in progressiva espansione, di diritti fondamentali, senza tuttavia rinunciare a una fondazione degli stessi puramente giusrazionalista, la strada diventa, come si capisce, stretta. In altre parole, se si vuol essere “conservatori” pur restando “moderni”, non rimane quasi altra scelta che quella di arroccarsi su un innatismo aprioristico, originalista. Un esito che appare, francamente, molto poco auspicabile o difendibile[2].

In campo “laico” e “progressista” certe operazioni, ovviamente, sono del tutto superflue. Consegue quindi alla scelta fondamentale post-illuminista di espandere all’infinito il riconoscimento dei diritti una proliferazione non problematica, perché letta come un perenne progresso, di nuove formulazioni positive che attribuiscono posizioni di vantaggio ai singoli. Si tratta di una logica in sé coerente, ma non per questo aliena da due ordini di rischi. Li si può schematizzare molto brevemente, a costo di una (necessaria) semplificazione:

1) da un lato, proprio perché la giuridicità moderna si risolve in giuridicità positiva, ogni concezione fondata in una visione razionalista di tipo moderno dei diritti vede la “giuridificazione” positiva come approdo necessario di ogni istanza di protezione o di attribuzione di posizioni soggettive di vantaggio. Ciò però conduce ad una sovrapposizione di piani: non c’è “pieno” diritto finché non c’è norma, ma, quindi, questo equivale ad ammettere che la positivizzazione finisce anche col fondare il diritto, non solo col “riconoscerlo”. Pertanto, e specularmente, si deve ammettere che dovunque vi sia una formulazione positiva vi è un “vero” diritto, e quindi la volontà “procedurale” dello stato legislatore è paradigma ultimo non solo della giuridicità, ma, in ultima analisi, anche dell’esistenza dei diritti. Tracce di questo – pericolosissimo – cortocircuito logico si trovano in varie pronunce delle corti sovranazionali, specie della CEDU (ad es., in materia di trascrizione dei matrimoni fra persone dello stesso sesso).

2) forse ancora più profondamente, la dogmatica espansiva dei diritti cade in una contraddizione di fondo che è stata ben evidenziata, di recente (e da sinistra), da filosofi come Jean Claude Michéa (cfr. Il lupo nell’ovile, Meltemi, 2020[3]), per cui questa concezione, fondata nella logica dei “droits de l’homme” di ascendenza settecentesca e nella accettazione della “libertà liberale”, necessariamente finisce con l’assumere anche il liberalismo economico e il capitalismo – per giunta, nella sua declinazione più estrema ed insostenibile – come proprio inevitabile puntello e sostrato di realizzazione.

Reciproche debolezze e un reciproco riconoscimento – Si è cercato di delineare come, in sostanza, non vi possa essere nessun facile terreno di incontro fra due culture dei diritti l’una delle quali si basa sulla consapevolezza di un Ordine trascendente – rispetto al quale la ragione umana deve “orientarsi”, “disporsi in ascolto” – mentre l’altra, invece, si fonda sul principio di immanenza e di unicità della ragione individuale in cammino lineare e “solitario” verso il “progresso”. Ciò però non significa rinunciare completamente ad ogni possibilità dialogo e condannarsi alla infinita ripetizione di uno scontro feroce fra duellanti sordi e ciechi, che si affrontano senza nemmeno comprendere le reciproche fattezze. Senz’altro vi è necessità di ritornare sul problema in modo più disteso, ma la sensazione è che almeno un punto di convergenza metodologico fra le “due culture” possa trovarsi in una franca riconsiderazione della funzione preponderante che entrambe, quando si tratta di diritti, finiscono con il demandare alla statualità. Da un lato, si tratta di abbandonare la pretesa che ogni sforzo di costruzione, riaffermazione, presidio dell’Ordine sia sempre e necessariamente votato a un riconoscimento da parte dei pubblici poteri, che rispecchi l’equilibrio ritenuto preferibile (è, questo, il residuo di una profonda immersione collettiva nella cultura del positivismo moderno, rispetto alla quale il pensiero della Chiesa non è andato immune).

Dall’altro lato, si tratta di comprendere come l’abbraccio dello Stato e della positività possa essere mortale, nella misura in cui totalizza ed assorbe ogni movimento “progressivo” cristallizzandolo e irrigidendolo: su una frontiera sempre più avanzata, ma anche, e forse proprio per questo, sempre più asfissiante[4]. Nell’un caso come nell’altro, il riconoscimento del ruolo anche in materia di diritti di una comunità oltre lo Stato, che si confronta nella concretezza delle situazioni di vita, e nella concretezza delle situazioni di vita trova degli equilibri collettivi flessibili, rispettosi di ognuno e costitutivamente aperti (anche ad una evoluzione in senso istituzionale), da petizione di principio e bella affermazione letteraria, dovrebbe poter diventare vera pratica di agire politico.

 

 

[1] Non si può dir meglio di come ha fatto Dante nel primo Canto del Paradiso:

Le cose tutte quante

hanno ordine tra loro, e questo è forma

che l’universo a Dio fa simigliante.

[…]

Ne l’ordine ch’io dico sono accline

tutte nature, per diverse sorti,

più al principio loro e men vicine;

onde si muovono a diversi porti

per lo gran mar de l’essere, e ciascuna

con istinto a lei dato che la porti.

[2] E che trova le sue espressioni più coerenti, se ben si intende, in alcune forme del pensiero “alt-right” statunitense, nutrite a loro volta di fondamentalismo anche religioso. Ben diversi, invece, sono gli approdi di un pensiero comunque saldamente fondato nella tradizione liberale, ma che, accogliendo la lezione innanzitutto di filosofi come Burke e Tocqueville, “integra” e “apre” questa tradizione a una attenta considerazione del portato della Storia, del contesto socio-culturale e del ruolo delle comunità.

[3] Trad. it. di Le loup dans la bergerie. Droit, libéralisme et vie commun, Flammarion, 2019.

[4] Come messo in luce dal filosofo (conservatore)  Pierre Manent (ne La loi naturelle et les droits de l’homme, PUF, 2018), il portato inevitabile della “dinamica di illimitazione” -di cui si è tratteggiato il profilo anche nel testo- è nel fatto che l’idea di una “libertà senza legge” (o meglio, si aggiunge, continuamente positivizzata in “nuove leggi”) è che “presto o tardi” essa porta “l’ideologia liberale dei ‘diritti dell’uomo’ a dover sacrificare la libertà d’espressione sull’altare del diritto ‘inclusivo’”. (si cita dall’ “intervista doppia”, ricchissima di spunti per i temi qui lambiti, fra Manent stesso e il già citato Jean-Claude Michéa, curata dalla giornalista Eugénie Bastié per Le Figaro ed apparsa il 18/09/2018. Il testo è reperibile, tradotto in italiano da G. Marcotullio, su https://www.breviarium.eu/2018/09/21/pierre-manent-jean-claude-michea-liberalismo-diritti-uomo-eugenie-bastie-figaro/).