di Michele Faioli

La domanda che bisogna porsi nello studiare i capitoli sociali della legge di bilancio 2022 è: l’Italia, intesa come sistema economico-sociale, è davvero in via di guarigione? Cioè, è sufficiente un rimbalzo del PIL per dire che stiamo progredendo anche nell’ambito delle protezioni sociali? Porsi questa domanda significa evitare l’autoreferenzialità e, dunque, osservare le riforme introdotte con la legge di bilancio 2022 alla luce di un benchmark esterno, quello europeo. Non ci sono alternative, anche per i capitoli sociali della manovra.

La legge di bilancio per il 2022 è la migliore che si potesse immaginare in una fase storica come la nostra. Va letta in modo sistemico con e dentro la progettazione PNRR. Essa presenta quattro importanti capitoli sociali. Il primo attiene alla ristrutturazione dell’istituto del reddito di cittadinanza. Il secondo capitolo riguarda il sistema delle pensioni. Il terzo capitolo concerne la definizione di una serie di politiche sociali che attengono alle misure per migliorare l’occupabilità, anche nella logica della promozione della genitorialità. Il quarto capitolo riguarda il sistema del sostegno al reddito e della formazione continua. Si tratta di riforme non marginali e mosse da una logica di tendenziale miglioramento di istituti introdotti negli anni scorsi. Il reddito di cittadinanza (RDC) viene adeguato all’originale fine, quello della lotta alla povertà, in ragione di cui questo tipo di strumento esiste in molti paesi europei. Si riconosce un certo fallimento della normativa del 2019, anche sulla scorta dei lavori della commissione ministeriale che si è occupata dell’analisi degli effetti sociali del reddito di cittadinanza, e vi è una conversione dell’istituto da strumento di politica attiva a tecnica di contrasto alla povertà.

Si è compreso che le caratteristiche dei beneficiari del RDC sono tali per cui è quasi impossibile un tentativo di combinazione tra le competenze di costoro e ciò che cerca il mercato del lavoro. C’è, quasi sempre, una distanza importante tra storie personali dei percettori di RDC e fabbisogni del mercato: facciamocene una ragione perché in questo modo si possono concentrare meglio gli sforzi in percorsi di inclusione e di formazione che hanno altri obiettivi, cioè quelli di rimettere la persona su un binario di autonomia che può condurre anche al lavoro. In altre parole, si è finalmente compreso che il reddito di cittadinanza va rafforzato prevalentemente nell’ambito del collegamento con i servizi sociali, tenendo in considerazione gli elementi di esclusione di tipo educativo, sanitario, psicologico, che spesso caratterizzano pesantemente le condizioni di disagio e di povertà. Sono stati anche modificati i criteri di selezione dei beneficiari del reddito di cittadinanza perché in essi sono stati riscontrati, come è noto, gravi distorsioni: si favorivano, in alcuni casi, i singoli e, in altri, condotte opportunistiche che permettevano di rientrare nei parametri di reddito e di patrimonio. Così si è deciso di incidere su quelle debolezze del sistema dei controlli e dell’incrocio derivante dalle banche dati, visto che gran parte del meccanismo di accesso al reddito di cittadinanza è basato su forme di mera autodichiarazione.

Sullo sfondo resta il problema della combinazione tra lavoro e RDC. Chiara Saraceno, Presidente della Commissione di revisione del reddito di cittadinanza, ha ben sintetizzato questo paradosso: «oggi, a un percettore del reddito di cittadinanza lavorare non conviene!». Bisognerebbe ridurre l’aliquota marginale sui beneficiari del RDC, perché con un’aliquota del 100% non si incentiva la ricerca del lavoro. Il che rende conveniente lavorare in nero, anche per evitare di pagare, per ogni euro guadagnato lavorando, uno di sussidio. In altri paesi europei, l’aliquota marginale sul reddito di cittadinanza/inclusione scende al di sotto del 60%. La normativa-ponte sulle pensioni è frutto di una mediazione difficile. Da una parte, c’è la visione del presidente Draghi, il quale ha sottolineato che l’inefficienza del meccanismo quota 100 è pagata dai giovani: «quota 100 è stata un’esperienza che non ho mai condiviso e che ha creato la necessità di tornare alla normalità ancora più urgentemente perché è costata molto». Dall’altra, c’è quella del sindacato, il quale chiede forme di differenziazione dell’età pensionabile in relazione alla professione svolta: «Non si può trattare un lavoratore della siderurgia allo stesso modo di uno che lavori nei servizi. Purtroppo, la legge Fornero ha collocato tutti sullo stesso piano. Non possiamo accettare che un lavoratore edile salga su un ponteggio a 70 anni» (Palombella, UILM).

Il punto di convergenza da cui tutti muovono è il fallimento dell’obiettivo del meccanismo di quota 100, il quale, nel 2019, fu presentato come strumento a favore dei giovani. E, invece, di esso i giovani sono le principali vittime perché pagano due volte il conto. Da una parte, è noto che quota 100 non abbia creato lavoro per i giovani perché la tanto agognata staffetta generazionale non c’è stata. Il lavoro per i giovani non si crea con il pensionamento anticipato delle madri e dei padri. È un’idiozia perché il mercato del lavoro non risponde a queste logiche semplicistiche (uno esce, tre entrano – etc.). Studi recenti dimostrano che una buona occupazione degli over 55 determina anche una buona occupazione dei giovani. Dall’altra parte, quota 100 crea debito pensionistico che ricade sui giovani tanto che entro il 2030 il costo dell’operazione quota 100 si attesterà intorno ai 28/30 miliardi. Le staffette generazionali possono creare effetti positivi se, a livello aziendale, vengono definiti percorsi di accompagnamento dei lavoratori più anziani e forme di ingresso dei giovani con rafforzamento delle competenze utili per quella specifica produzione (si v. il caso dei contratti di espansione).

La manovra di bilancio comprende anche un riordino del sistema del sostegno al reddito. Il disegno di legge di bilancio 2022 modifica, in parte, la disciplina delle integrazioni salariali (CIGO, CIGS, fondi di solidarietà). Si tratta sia di aspetti ordinamentali (la forma delle integrazioni salariali, ambito soggettivo di applicazione, prestazioni, etc.) che di profili che attengono al costo del lavoro, dato il programmato aumento della contribuzione. Si rafforza l’universalismo che è stato già definito con il d.lgs 148/2015: tutti i lavoratori di piccole e piccolissime imprese potranno accedere alle integrazioni salariali che sono gestite dai fondi di solidarietà e i lavoratori del terziario più strutturato potranno accedere anche alla CIGS. Ci sono però due problemi. Il primo: il meccanismo normativo che è alla base di queste estensioni dell’ambito soggettivo è inutilmente complicato. Il secondo problema riguarda l’incremento del costo del lavoro, il quale desta molte preoccupazioni, soprattutto tra le organizzazioni datoriali del terziario. Il fine dell’universalismo protettivo è condivisibile, ma il mezzo con cui esso si realizza ci interpella su due punti: perché attuare l’universalismo con una normativa che necessiterà di molti interventi interpretativi di secondo livello (ministero del lavoro, INPS, giudice, etc.) che determinano burocrazia e ingarbugliamenti applicativi?

E, poi, perché incrementare il costo del lavoro in una fase post-pandemica di generalizzata crisi, sapendo che potrebbe esserci un effetto indiretto sui prossimi rinnovi contrattuali?  Nella riforma spicca positivamente l’istituto dell’accordo di transizione occupazionale, il quale permette una certa mobilità nel mercato del lavoro per i lavoratori cassaintegrati che svolgono formazione continua finanziata da Regioni e fondi interprofessionali. I tre aspetti trattati (RDC, pensioni, CIG/formazione) ci insegnano che siamo di fronte a un bivio storico: lasciare il sistema che regola l’occupabilità nelle condizioni attuali o dare una spinta per il cambiamento. È il momento di non arretrare con le riforme. Adesso si deve prendere coscienza che il lavoro, spesso tradito dal regionalismo, necessita di forti infrastrutture unitarie nazionali, anche digitali, che possano permettere l’esercizio equivalente, in tutto il territorio nazionale, del diritto alla occupabilità, del diritto alla formazione, del diritto al lavoro sicuro e regolare.