di Michele Faioli

Nella conferenza stampa del 12 luglio, prima dell’inaspettata e fulminea caduta del governo, il Presidente Draghi e il Ministro del lavoro Orlando hanno presentato i contenuti della mediazione in materia di salario minimo che è stata raggiunta, da una parte, con CGIL, CISL, UIL, organizzazioni datoriali, e, dall’altra, con i partiti della allora coalizione. È stata una mediazione complicata. Le ragioni politiche sono note. In alcuni casi si tratta di mere rivendicazioni partitiche, che hanno utilizzano il frullatore della crisi di governo per lanciare temi importanti come quello del salario minimo, nella speranza di ampliarne l’effetto dell’instabilità. In altri casi siamo di fronte a forme di seria de-responsabilizzazione politica perché è evidente che non si conosce pienamente la materia incandescente, riferibile alle relazioni industriali, che si ha tra le mani. Ed è su questo punto, cioè sugli aspetti tecnici della proposta governativa mediata con le parti sociali, che intendo focalizzare la mia attenzione, mettendo da parte il dibattito politico.

Fissiamo i paletti del discorso. Il salario minimo legale è uno dei temi centrali dei sistemi di relazioni industriali più evoluti. Il salario minimo legale non va confuso con l’estensione dei minimi contrattuali. Sono due tecniche diverse che in alcuni ordinamenti coesistono (v. Francia e Germania). Il ministro Orlando propone l’estensione dei minimi contrattuali, non l’attuazione o l’introduzione di un regime di salario minimo legale. L’estensione dei minimi contrattuali si realizza con una disciplina che permette a una certa autorità (Ministero del lavoro? Governo?) di ordinare, mediante decreto, l’applicazione obbligatoria di un certo trattamento economico per i lavoratori di un certo settore produttivo. A monte di questa operazione c’è la selezione, difficilissima per il sistema italiano, dei contratti collettivi nazionali i cui minimi contrattuali saranno individuati come punto di riferimento per l’estensione mediante decreto.

Il ministro Orlando sta predisponendo una norma che permetterebbe l’estensione dei minimi contrattuali di tutti i CCNL sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative. È una norma che porta con sé molti problemi operativi, su cui i tecnici del ministero stanno lavorando (quali sono tali CCNL su circa 1000 depositati al CNEL? Quali sono i perimetri contrattuali di riferimento, data la sovrapposizione incontrollabile tra settori? Chi può dirimere gli eventuali conflitti su questi temi?). Il DDL Catalfo muove, invece, da un meccanismo che, in modo approssimativo, combina la fissazione di un importo (9 euro/ora) con il richiamo ai minimi contrattuali dei CCNL sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative, con il rischio di sventramento della contrattazione collettiva perché i datori di lavoro che oggi pagano 15 euro/ora, applicando un certo CCNL, deciderebbero di pagare, al ribasso, i 9 euro/ora.

Ora andiamo alla domanda vera: può la proposta del ministro Orlando essere considerata una leva contro la piaga del lavoro povero? Intendiamoci sulle nozioni e sulle cause prima di dare una risposta. Il lavoro povero, cioè il lavoro che non permette ai genitori di portare sulla tavola cibo a sufficienza per i figli o, ancora, di supportare i relativi studi o inclinazioni perché mal retribuito, muove da almeno tre cause. La prima attiene al fatto che il datore di lavoro ha deciso di applicare un contratto collettivo al ribasso, contratto generalmente sottoscritto da organizzazioni sindacali minori (contratti pirata). La seconda causa riguarda l’applicazione di un CCNL non ancora rinnovato (v. il richiamo di Draghi nella conferenza stampa sul CCNL Terziario). La terza causa è relativa al lavoro irregolare/sommerso che contraddistingue molti settori e molte aree del nostro paese (per esemplificare “se vuoi lavorare, ti posso assumere solo in nero!”).

Ripeto la domanda da cui muoviamo: se il lavoro povero nasce da queste cause, la proposta di Orlando può essere considerata uno strumento adatto per la lotta contro la piaga del lavoro povero? Forse sì, forse no. Tale proposta, se realizzata, dovrà in ogni caso essere corredata da una serie di misure di sostegno, tra cui le più importanti sono, da una parte, la vigilanza ispettiva (modello coercitivo-sanzionatorio indispensabile contro chi decide di non conformarsi alle norme) e, dall’altra, la corresponsabilità delle organizzazioni sindacali e datoriali, le quali potrebbero essere altresì chiamate, come accade in altri paesi europei, a una forma di collaborazione nella verifica della corretta amministrazione del contratto collettivo.

Nonostante la caduta del Governo Draghi, il tema rimane centrale e dovranno essere la politica e le parti sociali a decidere come affrontarlo durante la campagna elettorale e nel corso della prossima legislatura. Guardiamo al futuro con fiducia. La proposta del ministro Orlando può rappresentare un primo passo nella direzione giusta. Non sperperiamo, dunque, il potenziale di questa occasione, pensando già da adesso quale debba essere la struttura della norma e delle relative misure di sostegno. Non è più il tempo per norme sociali che si limitano a essere un “simbolo” per qualcosa o qualcuno.