di Francesco Occhetta
Nel tempo dell’eclissi della giustizia varrebbe la pena rileggere l’opera del gesuita E. Wiesnet «Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto fra cristianesimo e pena». Il volume è dedicato ad Hans, un ragazzo di 19 anni a cui, dopo tre anni di detenzione, viene negata ogni riconciliazione dagli abitanti del suo villaggio. Hans si impiccherà per disperazione dopo sei settimane, lasciando scritto nella sua lettera di addio: «Perché gli uomini non perdonano mai!».
L’opera, che spiega come la Bibbia nutra il significato antropologico e morale di giustizia, può aiutare gli attori della giustizia a volare alto intorno ai contenuti della riforma Cartabia e a superare i troppi interessi di parte che soffocano il significato di giustizia nella nostra civiltà giuridica. Per la Bibbia la giustizia penale cura le relazioni ferite e il suo significato a livello giuridico rimanda ad una doverosità verso gli altri e ad un’esigibilità verso sé stessi. Il suo significato è continuamente provocato da una domanda morale: «Chi è l’altro per me?» e dal senso ebraico di sedaqah, ovvero della giustizia intesa come solidarietà alla comunità di appartenenza che porta a dire “Per quanto sia difficile, io sono sempre responsabile dell’altro”.
La Genesi, senza edulcorare la realtà, racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano, Giuseppe e i suoi fratelli. Nella Bibbia, la fratellanza non è data biologicamente ma è un punto di arrivo, non ha nulla a che vedere con i legami di sangue. L’uomo è “per natura” fratricida, mentre “per cultura” può diventare prossimo e giusto. L’essere giusto o ingiusto, infatti, non dipende dall’obbedienza a una norma imposta, ma dalla capacità di riconoscere nel volto dell’altro la propria dimensione di persona giusta, come è stato Gesù che porta sulla croce il peso dell’ingiustizia. L’altro è innanzitutto Dio, ma è anche il fratello, il prossimo, l’altro uomo che esige il riconoscimento della sua vita. Nei racconti di origine della Bibbia, che sintetizzano la riflessione e la sofferenza di un popolo, si narra come l’esperienza del giusto esiga un duro cammino. Prendiamo un esempio dal testo: nel racconto Adamo incarna la pretesa di essere come Dio (Gen. 3,4), invece quando Dio gli chiede dove fosse Abele, lui gli risponde adirato con un’altra domanda: “Sono forse il custode di mio fratello?”.
Rileggendo questa pagina, la filosofia del Novecento risponde con Levinas: «Nel momento in cui metto in dubbio quella dipendenza e chiedo come Caino che mi si dica per quale ragione dovrei curarmene, abdico alla mia responsabilità e non sono più un soggetto morale». Eppure, il realismo del modello di giustizia penale di Israele è servito per regolare nella storia il significato della pena e della sofferenza nei rapporti fra gruppi e Stati, tribù e nazioni che si impegnano a ristabilire la giustizia e il riconoscimento reciproco. Nessun sconto o buonismo, ma solo una giustizia adulta e possibile si rivela come vera nella storia degli uomini. La stessa legge del taglione, spesso utilizzata dai giustizialisti per giustificare la durezza delle pene, non include una risposta vendicativa, ma esige una proporzione tra il male provocato e la pena inferta. Sfogliando la Bibbia non emerge un’idea astratta di giustizia, ma si intravvede una via per diventare giusti. La giustizia è un appello interiore alla responsabilità verso Dio e verso gli altri uomini. In ebraico responsabilità (achraiùt) include sia la voce ach (fratello) sia achèr (altro).
Ricostruire la verità di una relazione spezzata è il fondamento di ogni riforma della giustizia. Per questo, la morale biblica concepisce la giustizia penale secondo alcuni princìpi:
1) “Non giudicare ma rieducare il colpevole”. Caino, l’archetipo dell’assassino, non viene abbandonato a sé stesso, non è escluso dalla premura di JHWH. La tsedāqāh di JHWH prevede per Caino un lungo cammino di espiazione e di riabilitazione dopo la cacciata dal giardino.
2) “La responsabilità nell’esecuzione penale è oggettiva”, diventa soggettiva e individuale solamente nel diritto romano. La vittima deve ritrovare ciò che le è stato tolto: o il colpevole assume la propria responsabilità risarcendo del danno la vittima (o i suoi familiari), oppure la responsabilità ricade sull’intera comunità.
3) “Il dovere di bonificare la terra” quando viene macchiata dal sangue del fratello. Altrimenti il frutto non crescerà più per nessuno nel luogo del crimine, nemmeno per le vittime o per gli estranei all’azione violenta, perché il luogo della relazione e della reciprocità è stato turbato.
4) «Nella colpa, la propria pena», ha ribadito nel 1987 il cardinale C.M. Martini parlando ai detenuti del carcere di San Vittore: «Nella colpa è insita una sofferenza, una umiliazione e una esclusione dalla comunione pacifica degli uomini». La funzione della pena è trasformare la colpa in responsabilità per riabilitare a un nuovo inizio. La giustizia biblica punisce severamente il male fatto, ma salva chi lo ha fatto.
Anche in queste settimane di dibattito ci si divide tra giustizialisti, che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta, e permissivisti, che minimizzano l’accaduto. Tutto questo però cambia quando la giustizia riesce a toccare la carne e gli effetti del male compiuto. In quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Con un tasso di recidiva che si aggira intorno al 68% e una spesa di solo 95 centesimi al giorno per la rieducazione dei detenuti il modello di riabilitazione previsto dall’art. 27 della Costituzione. Nonostante l’inerzia del sistema giudiziario, e anche se le forze politiche stanno remando contro, «la riforma deve essere fatta, con gli aggiustamenti tecnici necessari, perché lo status quo non può rimanere tale» ha sottolineato in Parlamento la Ministra Marta Cartabia. La riduzione dei tempi dei processi imposta all’Italia dall’Ue invece di unire il Paese, rischia di spaccarlo, perdendo quindi i finanziamenti del Pnrr.
La crisi nasce da lontano: il modello vigente di «giustizia retributiva» è ormai arrivato al suo massimo grado di positivizzazione. E di questo è sintomatica anche la scomparsa del nome “grazia” al Ministero di Giustizia. In quella parola si rinchiudeva un distillato di civiltà. Oggi la riforma ci impone un salto culturale: la giustizia deve essere ispirata dalla cultura della riparazione. Una giustizia che, quindi, superi l’intimidazione della pena, scommetta sulla riabilitazione del detenuto, tenga in conto del dolore della vittima, preveda il ripristino dell’oggetto o della relazione rotta. Di recente anche il Cardinale Matteo Zuppi, si è schierato a favore del modello nel libro intervista Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa che ha una pregiatissima postfazione di Adolfo Ceretti.
Tecnicamente, la giustizia riparativa non è negoziazione; non è risarcimento. È un modello culturale che aiuta il modello classico, ma capovolge il significato di giustizia e include il mišpat (la giustizia classica) e il rîb (lite bilaterale), con cui iniziano i libri di Isaia, Osea e Geremia approfonditi dal Cardinale C.M. Martini e dal gesuita Pietro Bovati. L’esperienza ha già preceduto la riforma di un sistema che non vuole riconoscere ciò che è già avvenuto come rivoluzionario. Lo testimoniano esempi silenziosi e luminosi di riparazione. Anna Laura Braghetti, che freddò con 11 colpi Vittorio Bachelet, ha ricordato l’incontro avuto con suo figlio: «Ci siamo riconosciuti. Mi ha parlato e mi ha detto che bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato. Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene».
Daniela Marcone, responsabile nazionale Libera Memoria, a cui è stato ammazzato il padre, ha spiegato così la riparazione: «Ogni volta che viene commesso un crimine, questo coinvolge direttamente il reo e la vittima, ma in realtà si crea uno strappo anche ai danni della comunità in cui reo e vittima vivono: questo strappo occorre ripararlo». Lina Evangelista, moglie di un poliziotto assassinato dai neofascisti dei Nar nel 1980, ha affermato: «Perdonare non significa dimenticare il passato, si ricorda tutto, ma in modo diverso»; e, dopo aver incontrato gli assassini del marito, confida: «I mostri si sono rivelati tutt’altro».
Agnese Moro ha scritto ai terroristi del padre dopo aver riletto le terribili pagine dell’autopsia che parlano della sua agonia: «Dopo questa lettura — ha raccontato — sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi, come il vostro verso di noi, è stato fatto senza semplificare e senza mettere niente tra parentesi». Anche la signora Calabresi ha di recente chiesto “verità”, non vendetta. Storie che finalmente trovano casa in una riforma e possono capovolgere la giustizia, come ha dichiarato Luciano Violante: “La riforma Cartabia è profondamente innovativa perché muta i rapporti tra cittadini e Stato, trasforma il giudice da contabile della sanzione in colui che può aiutare il condannato a ricostruire i rapporti con la società spezzati dal reato”.
Come insegnamento la Bibbia ci ricorda di «non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia» (Levitico 19,15) perché «il giusto sarà sempre ricordato» (Salmo 112).