Nel corso dell’incontro dello scorso marzo del Gruppo dei 33, Francesca Carenzi ha relazionato, interrogandosi sul ruolo delle donne nel costruire la pace.

Davanti ad un mondo in guerra, ad un’esponenziale crescita della violenza e dei danni dovuti ai conflitti armati occorre mettere in luce la particolarità della condizione delle donne in tale contesto. Oggi sono in corso nel mondo circa 170 conflitti e sappiamo che il numero di donne che oggi vivono in Paesi a rischio è aumentato del 50% rispetto al 2017, un numero che nel 2022 ha raggiunto i 614 milioni. I rischi principali a cui vanno incontro le donne e le ragazze che vivono in contesti di violenza diffusa sono la tratta di esseri umani, la violenza sessuale, danni alla salute, l’interruzione percorso di studi, gravidanze forzate e aborti indotti, trasmissione HIV e la riduzione in schiavitù.

Quali strumenti esistono a livello globale per tutelare e migliorare la situazione delle donne in contesti di conflitto? Le Nazioni Unite, nell’ottobre del 2000, hanno approvato la risoluzione 1325 che, insieme ad altre 9 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, forma l’Agenda Donne Pace e Sicurezza. L’Agenda è basata su 3 pilastri: la Protezione (ovvero il diritto umanitario internazionale che assicura alla realtà femminile una protezione mirata dalle violenze di genere in tempo di guerra), la Prevenzione (che racchiude le azioni di protezione e promozione dei diritti umani fondamentali delle donne) e la Partecipazione (che considera il ruolo attivo delle donne nella risoluzione delle dinamiche di conflitto, quali la partecipazione ai processi di mediazione, alle missioni sul campo e ai tavoli negoziali degli accordi di pace). La Risoluzione 1325 quindi ha ancora oggi un ruolo importante nel definire la cornice giuridica in cui inserire gli interventi a favore delle donne. Ma la Risoluzione ha avuto anche il grande merito di promuovere un ruolo attivo delle donne passando, grazie al pilastro della partecipazione, dalla visione della donna esclusivamente come vittima, ad un’immagine della donna come agente del cambiamento.

Purtroppo, ad oggi, la Partecipazione risulta essere il pilastro più debole dell’Agenda. I numeri parlano chiaro: nel 2022 su 18 accordi di pace solo 1 è stato firmato o testimoniato da un rappresentante di un gruppo o di un’organizzazione femminile. Un dato che fa riflettere su quanta strada ci sia ancora da fare per riconoscere le donne come reale interlocutore ai tavoli negoziali. Un numero che riflette anche la mancanza di volontà politica nel creare processi di dialogo tra stakeholder, istituzioni e cittadini realmente condivisi e inclusivi, che si traduce anche nell’esclusione dei rappresentanti della società civile dai processi di peacebulding e nel mancato finanziamento dei Piani nazionali sui temi di donne, pace e sicurezza.

Inoltre, i numeri e alcuni studi di settore mostrano, con evidenze statistiche, la ricaduta pratica positiva dell’intuizione dell’Agenda: in un’analisi di 182 accordi di pace lo studio Reimagining Peacemaking: Womens Roles in Peace Processes (2015) evidenzia l’impatto che ha la partecipazione delle donne alla durata di un accordo di pace. I dati dello studio rivelano come nel breve periodo un accordo in cui le donne sono state interlocutrici nelle mediazioni e negoziazioni ha il 20% in più di probabilità di durare almeno due anni e nel lungo periodo esiste il 35% di probabilità in più che un accordo duri per 15 anni rispetto ad accordi unicamente negoziati e sottoscritti da uomini.

Ecco quindi che, nella prospettiva di costruire la fraternità, lo spunto di partecipazione offerto dall’Agenda Donne Pace e Sicurezza risulta interessante per coinvolgere chi per troppo tempo è rimasto ai margini del potere decisionale e che invece avrebbe un grande contributo da dare per la costruzione della pace. La partecipazione e l’ascolto come chiavi di volta per la costruzione di politiche e prassi istituzionali condivise, in cui è possibile riconoscersi e per questo più fraterne ed efficaci.