I prossimi mesi saranno decisivi per ricostruire il Paese. Nel dibattito pubblico si è discusso molto su come ricominciare, da chi ripartire, da dove ricostruire. Il Next Generation EU è un’opportunità per abbandonare le logiche pre-pandemiche e scegliere nuovi modelli di sviluppo, nei quali l’interesse individuale può non vincere sul benessere della comunità e lo sfruttamento delle risorse umane, sociali e naturali non sia giustificato dal guadagno economico. La speranza di molti è che i fondi possano servire per risorgere, ovvero per “elevarsi verso” (come suggerisce l’etimologia latina, re-surgo) un nuovo presente che sia in grado di curare il pianeta e sanare le disuguaglianze sociali.

I piani di recupero ci forniscono la possibilità di iniziare un processo di conversione delle nostre comunità verso la sostenibilità. Il 30 aprile il Governo ha presentato alla Commissione Europea un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che prevede di utilizzare i fondi del Next Generation EU per fare riforme e investimenti capaci di curare la fragilità ambientale, economica e sociale dell’Italia, in stato preoccupante già prima della pandemia. Se da una parte il PNRR rappresenta uno strumento “top-down” per guidare il Paese verso la transizione auspicata, dall’altra le sfide della transizione necessitano anche di strumenti “bottom up”, affinché le linee guida del PNRR possano tradursi su scala locale in maniera efficace e rigenerativa.

Gli strumenti “bottom up”, ovvero “dal basso verso l’altro”, possono essere usati per instaurare dialoghi a livello locale o di specifiche realtà produttive, facendo emergere sia le necessità individuali, che ogni contesto o settore si trova ad affrontare per attuare la transizione, sia collaborazioni che possano tradurre le sfide della transizione in obiettivi concreti e gestibili. In questo modo si crea lo spazio perché la comunità si possa rigenerare tramite la partecipazione attiva, permettendo una transizione sostenibile e non divisiva. Perché questo accada, però, occorrono modelli “bottom-up” che favoriscano il “gioco di squadra”, creando connessione e comunità anche tra società concorrenti o realtà antagoniste (e.g. Pubblico e Privato, Scuola e Lavoro etc.), perché prima della competizione ci sia cooperazione. Servono modelli che permettano di abbandonare la logica del singolo, creando invece alleanze per camminare insieme verso una transizione sociale ed ambientale giusta.

L’alleanza come esperimento politico di comunità, come modello di condivisione, di cooperazione e discernimento collettivo diventa allora uno strumento per decidere insieme come rigenerare e condividere i rischi della transizione in specifici settori o territori, minimizzando i costi e massimizzando i benefici. Le alleanze possono e devono rappresentare il “filo conduttore” del Paese perché le forze non si disperdano e “si scoprano i veri problemi da risolvere” (L. Einaudi, Prediche Inutili, Conoscere per deliberare) per attuare la transizione.

Il modello dell’alleanza è già stato adottato dall’Unione Europea come strumento catalizzatore per la transizione. Le alleanze attualmente esistenti in Europa sono di natura prettamente industriale e hanno lo scopo di facilitare il dialogo tra le istituzioni europee e le aziende private degli Stati membri. Non hanno un approccio esclusivo e non pongono condizioni di adesione vincolanti verso le attività che partecipano. Le alleanze messe in atto dalla Commissione Europea al momento hanno lo scopo di connettere il pubblico con il privato in base ad un obiettivo comune e di facilitare lo sviluppo di tecnologie innovative, che possono contribuire in maniera considerevole alla transizione verso un pianeta a zero emissioni di carbonio entro il 2050.

Attualmente la Commissione Europea propone alleanze industriali nei seguenti settori: l’idrogeno – uno dei vettori principali a basse emissioni di carbonio con cui le istituzioni UE ritengono di de-carbonizzare le industrie ad alto tasso di inquinamento, le batterie, la plastica e infine l’alleanza europea delle materie prime. La chiave vincente del modello di alleanza, che riesce ad unire addirittura i “competitors” del settore industriale, è la sua stessa base di partenza: l’obiettivo comune. Individuato questo, gli attori del mondo privato possono unire competenze, necessità sociali e di mercato. Così facendo si aiutano anche le istituzioni europee ad individuare i punti fondamentali sui quali investire perché possano avere un riscontro concreto nella società in termini di ricaduta economica, politica e occupazionale.

Questo modello di alleanza, che trova una sua sintesi nel fattore comune dato dal profitto economico, può essere applicato anche ad altre esigenze e necessità. Potrebbe addirittura essere un modello attorno al quale ricostruire la ripartenza dell’Europa, a maggior ragione in questo periodo in cui i singoli Paesi sono chiamati ad applicare i PNRR. Un modello di alleanze territoriali potrebbe facilitare la ricezione delle politiche proposte dal piano del Governo Draghi, supportando non solamente le grandi città, ma anche gli enti locali e i piccoli comuni. Su scala locale, se gli enti locali non saranno accompagnati dalla società civile che anima i territori, il tema dell’assimilazione delle politiche della transizione verde e digitale sarà tutt’altro che scontato. Le alleanze possono ricreare un patto sociale e generazionale, accompagnando i giovani con programmi di “mentorship” perché possano essere “enzimi” nel territorio e instaurare così processi trasformativi a lungo termine.
 
L’alleanza rappresenta quindi un modello concreto e locale di condivisione, di cooperazione e discernimento collettivo, applicabile sia a scala europea che nazionale. Come già indicato da papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, occorre cercare l’altro e farsi carico insieme della transizione, cominciando dal basso e creando «uno spazio di corresponsabilità capace di generare nuovi processi e trasformazioni». L’alleanza qui proposta rappresenta, in questo senso, uno strumento politico privilegiato per poter «incontrarci in un noi che sia più forte della somma di piccole individualità»[1], riconoscendo in fraternità l’unità nelle diversità umane e le diversità nelle unità umane. Ed è proprio nella creazione di alleanze generazionali, internazionali, territoriali e produttive che le diocesi possono svolgere un ruolo fondamentale, così come è già stato in passato. Le prossime Settimane Sociali ad ottobre rappresentano un’occasione unica per comprenderne il modo e mettere in pratica le alleanze nel territorio.

[1] Papa Francesco, Fratelli tutti, 77-79.