di Marco Fornasiero*

Marco Fornasiero

 
Stiamo vivendo un periodo molto delicato della nostra esistenza, difronte al quale ci troviamo inermi. È così, questo virus, COVID19, ci ha riportato alla dimensione essenziale propria di tutto il genere umano, la sopravvivenza. L’Italia, come gli altri Paesi coinvolti, non possono pensare di uscire da questa situazione “da soli”. “Da soli” si possono solo peggiorare le cose. Serve una strategia comune, una strategia dettata dall’Unione Europea per incidere nei settori in cui è più necessario, per supportare i singoli Stati in questo dramma sanitario ed economico.
 
L’avvento di questo virus è stato dirompente perché ha paralizzato non solo la vita delle persone ma anche il funzionamento delle istituzioni nazionali e sovranazionali. Il Palamento italiano non si è riunito per più di due settimane e il Parlamento Europeo per la prima volta nella sua storia ha sostenuto il voto on line. In tempi come questi le istituzioni democratiche non possono fermarsi, anzi devono rafforzare il loro potere di incidenza. Preso atto del danno incredibile causato da questa pandemia, bisogna dire che ha messo in evidenza i limiti di un sistema decisionale che già in passato aveva dimostrato di essere stato inefficiente durante la crisi economica e finanziaria del 2008. È evidente che questo modello non funziona, probabilmente perché eccessivamente squilibrato verso un sistema che si regola più sui tecnicismi degli equilibri finanziari di pochi stati membri e non su una solidarietà e fiducia tra popoli, che costituiscono gli elementi basilari per ogni relazione.
 
Lo scenario geopolitico a livello mondiale è mutato notevolmente negli ultimi anni, con delle costanti. Vi sono più Paesi con figure autoritarie e con una propensione al conservatorismo nazionale. La costante è stato il progressivo indebolimento delle forze liberal-democratiche, di concerto con l’aumentare dei problemi generati dalla crisi economica del 2008.
Di fronte a questa crisi l’Europa ha dimostrato di rispondere troppo lentamente, probabilmente anche perché la governance europea non lo permetteva. Ora si presenta una nuova crisi, con forme differenti ma con esiti molto simili. Le stime ci dicono che questo lockdown, necessario per contrastare la diffusione del virus, innalzerà i livelli di debito in rapporto al Pil al 150% e il deficit in rapporto al Pil al 6,6%[1].
 
L’intervento dell’Europa è necessario. Un programma di aiuto per supportare non solo le finanze ma anche l’economia reale è un dovere per salvare aziende e lavoratori dal fallimento e dalla disoccupazione.
Con un po’ di ritardo l’Europa ha avanzato delle proposte. La Banca Centrale Europea ha varato un programma di investimenti da 750 miliardi di euro, il PEPP, Pandemic emergency purchase programme. Anche la Commissione Europea ha preso posizione predisponendo interventi in diversi settori come quello sanitario, che prevede il sostentamento di ospedali e strutture mediche. Un provvedimento doveroso è stata la sospensione da parte dei ministri delle finanze dell’UE, l’Ecofin, dei vincoli di spesa previsti dal Patto di Stabilità e Crescita, il vincolo del 3% deficit-Pil. Sempre la Commissione ha previsto lo stanziamento di 37 miliardi di euro per sostenere le piccole e medie imprese, di questi circa 7 miliardi saranno destinati all’Italia. Inoltre la Commissione ha proposto di inserire la crisi della sanità pubblica tra le competenze di applicazione del Fondo Solidarietà per il quale sono disponibili 800 milioni di euro. Per quanto riguarda la ricerca, sono previsti 80 milioni di euro destinati alla società CureVac per la realizzazione di vaccini contro il coronavirus; 164 milioni sono previsti per Startup e aziende tecnologiche impegnate nel contrasto al virus. Queste sono solo alcune delle principali vie che l’Europa intende percorrere.
 
L’istituzione che ha da subito dato un segnale forte in questa direzione è il Parlamento Europeo. A partire da questa legislatura, grazie al Presidente David Sassoli, il Parlamento ha più volte sottolineato l’importanza del ruolo di questa istituzione evidenziando, in ultima istanza, il problema della governance. Giovedì 26 marzo infatti, il Consiglio Europeo, l’organo che riunisce i capi di Stato e di governo e che si pronuncia all’unanimità, si è spaccato proprio sul tema delle misure finanziarie ed economiche da adottare. Un gruppo di 9 Stati membri[2], coordinanti da Italia e Spagna, chiedono l’utilizzo degli Eurobond per limitare il più possibile i danni alle economie e permettere una ripresa in minore tempo possibile, condividendo dunque il debito a livello europeo. Austria, Olanda, Finlandia e su tutti la Germania invece propongono come via il MES, il meccanismo europeo di stabilità o più conosciuto come Fondo salva Stati, che garantirebbe il sostentamento economico a patto di un piano di controllo sul debito pubblico e sull’andamento macroeconomico. A fronte soprattutto della presa di posizione del Presidente Conte e della Spagna, il Consiglio ha raggiunto un accorto affidando il compito alla Presidente della Commissione e al Presidente del Consiglio di presentare entro due settimane misure di lungo periodo per portare a termine il confronto.
 
La risposta non si è fatta attendere. La Presidente della Commissione Europea in data 1 aprile ha presentato SURE, State sUpported shoRt time programmE. Questo programma consiste in una cassa di integrazione europea sostenuta da tutti gli Stati Membri per salvaguardare le aziende in crisi e per garantire il posto di lavoro a migliaia di cittadini europei.
È l’egoismo di cui ha parlato il Presidente Sassoli la causa della frattura del Consiglio del 26 marzo. Egoismo che finisce per essere miopia nel momento in cui non ci si rende conto che un mancato aiuto in questa fase ai Paesi membri più colpiti e con debiti pubblici più alti può comportare un indebolimento progressivo dei Paesi che ora si considerano forti. Con un crollo dell’economia a livello europeo, chi comprerà le auto tedesche, settore della produzione già in crisi nel 2019 con una perdita di crescita sul Pil dello 0,7%[3]? Come ha sostenuto recentemente anche Romano Prodi, già Presidente del Consiglio e Presidente della Commissione Europea, a chi venderanno i tulipani gli olandesi?
 
L’analisi più autorevole, in termini di strategia politica, economica e sociale, l’abbiamo ricevuta proprio da un italiano, Mario Draghi, già Presidente della BCE. Draghi in un articolo per il Financial Times, evidenzia i passaggi da seguire per evitare di mandare il sistema in default. L’immissione di denaro liquido alle banche, ai crediti postali, per sostenere non solo l’aspetto finanziario ma anche l’economia reale delle piccole e medie imprese. Nel suo articolo cita la crisi degli anni 20 del 900 per indicare come questa crisi non sia ciclica e non sia stata generata da una mancanza di programmazione economica, ome dice Mario Draghi “the cost of hesitation may be irreversible.”[4]. Siamo in una crisi dalle proporzioni simili a quella del 2008 ma con una genesi differente. La ricetta da seguire delineata da Draghi per uscire dalla malattia è molto chiara. Per questo viene richiesto uno step in più, un cambio di mindset per comprendere che la posta in gioco non è l’equilibrio dell’eurozona ma il futuro dell’Europa stessa.
 
Una volta superata questa emergenza, speriamo il prima possibile, non sarà più procrastinabile il tema delle riforme della governance europea. Ritorna attuale una proposta di qualche anno fa[5], di una Europa in chiave federale che garantirebbe una Unione Europea composta da una unione di Stati uguali fra loro, sulla scorta dell’esempio americano[6]. Il processo di modifica garantirebbe un mantenimento delle attuali istituzioni europee ma con competenze e modalità di elezione dei propri organi differenti. In particolare, con l’assetto federale, l’esecutivo rimarrebbe comunque a due teste. Mentre oggi il Presidente della Commissione Europea rappresenta gli interessi del Parlamento Europeo e il Presidente del Consiglio europeo gli interessi degli stati membri[7], con l’assetto federale il presidente del Consiglio Europeo sarebbe scelto dai governi nazionali e dai collegi elettorali nazionali, il Presidente della Commissione invece verrebbe scelto dal Parlamento Europeo. La rappresentanza dell’Unione federale, sia per quanto riguarda la politica estera che per la politica interna, sarebbe in capo al Presidente del Consiglio Europeo.
 
L’importanza nel mantenere l’ambivalenza di entrambe le cariche risiede nel fatto che così facendo risulterebbe più difficile la centralizzazione di un certo gruppo di interessi piuttosto che di altri.
Comunque, l’assunto di base per avere una Europa più forte, più unita e più solidale, risiede nel fatto che prima dell’Europa, bisogna “fare” gli Europei.
 
*Dottore in Scienze Politiche, tirocinante presso l’ufficio di Presidenza del Parlamento Europeo
marco.fornasiero91@gmail.com
 
 

[1] Si veda www.prometeia.it
[2] Questo gruppo di stati, per lo più del sud Europa comprende oltre a Italia e Spagna anche Portogallo, Grecia, Francia, Belgio, Slovenia, Lussemburgo e Irlanda.
[3] È importante ravvisare anche il fatto che gran parte della produzione dell’automotive tedesca avviene nei Paesi del così detto gruppo Visegrad, che più volte hanno manifestato critiche nei confronti dell’operato europeo.
[4] M. Draghi, Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly, 25 marzo 2020, www.ft.com
[5] Cfr. per tutti S. Fabbrini, Sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa, Roma, Laterza, 2017
[6] Comprendere il processo che ha portato alla federazione degli stati americani è fondamentale, non tanto per la rivoluzione in sé, piuttosto per gli esiti della rivoluzione stessa. Una volta indipendenti dalla Madre Patria, gli Stati americani, per tutelare la loro indipendenza e il loro sviluppo, decisero di stilare una Carta Costituzionale all’interno della quale tutti sentivano i propri interessi nazionali garantiti in egual misura a favore di una cessione di sovranità.