Welfare si traduce in benessere. Welfare è una parola che può assumere tre declinazioni principali. La prima è quella statale. Secondo l’articolo 38 della Costituzione, lo Stato deve garantire mezzi di sostentamento ai lavoratori disoccupati. Alla tradizionale indennità di disoccupazione, la Naspi, si è aggiunto il reddito minimo garantito che, come era prevedibile, ha infiammato parte dell’opinione pubblica.
La seconda declinazione è quella aziendale. Secondo l’articolo 51 del Testo Unico dei Redditi di Impresa, nel welfare rientrano ad esempio le polizze sanitarie, la previdenza complementare, le convenzioni per spese mediche o gli abbonamenti ai trasporti, i buoni d’acquisto per la spesa o il carburante.
La terza accezione è invece quella territoriale: iniziative che interessano determinate aree geografiche con lo scopo di rilanciarle. Le principali riguardano l’occupazione, i servizi e le opere. L’efficacia del welfare è stata tradizionalmente alta, con risultati in termini di benessere personale, poiché lo strumento ha saputo rispondere ai bisogni di disponibilità economica, salute e spostamento dei lavoratori.
Ma l’esperienza della pandemia ha messo in crisi il sistema. Dopo aver sperimentato la caducità della vita, nelle persone è affiorato il bisogno di tempo per la cura dei propri affetti e degli interessi personali. L’ impatto di queste nuove esigenze sul mondo del lavoro ha avuto due conseguenze.
La prima è il “quiet quitting”, il fenomeno di progressivo e silenzioso (quasi inconscio) ritiro delle persone dal proprio lavoro, che ha messo in evidenza l’insofferenza di molti lavoratori nei confronti della propria occupazione non sempre soddisfacente e aderente alle esigenze e alle ambizioni personali.
La seconda è l’abbandono dei lavori che impediscono la conciliazione con i tempi di vita, la work life balance. Il fenomeno è stato definito “great resignation”. A questo proprosito, secondo il rapporto Randstad Workmonitor del 2022, il 38% dei lavoratori tra i 25 e i 34 anni è alla ricerca di un nuovo lavoro mentre il 51% ha già rassegnato le dimissioni. Ciò significa che la stragrande maggioranza delle persone è in fase di esplorazione di nuove opportunità occupazionali.
Rispondere al nuovo bisogno non è una sfida facile. Sicuramente non rispondono le misure statali, che hanno lo scopo di garantire la basilare disponibilità economica nei periodi di inattività lavorativa. Mancano, infatti, politiche di accompagnamento attivo all’occupazione, di workfare. Anche il welfare dei territori, da solo, non è in grado di rispondervi.
Una risposta efficace può arrivare dal welfare aziendale, grazie alla conoscenza diretta dei lavoratori e delle loro esigenze da parte delle imprese. Adriano Olivetti le definiva sentinelle sui territori, capaci di, come ricordava Hirschmann, di sperimentare ascolto e lealtà: “voice” e “loyalty”.
A dover essere messe in campo sono, come già accade in alcune realtà, politiche avanzate sullo smart working, sugli asili nido, sui congedi parentali, di maternità e paternità, sui servizi di shopper e fac – totum, o ancora politiche sulla settimana lavorativa corta. tutte queste politiche devono essere promosse delle policy datoriali o della contrattazione collettiva.
Ma negli ultimi tempi, il dibattito si è polarizzato sul welfare retributivo. Ad alimentarlo la disponibilità in favore dei dipendenti di somme per il pagamento delle bollette di gas, luce e acqua. Una soluzione estremamente utile a condizione che sia pensata all’interno di un articolato intervento legislativo.
Amartya Sen lo aveva intuito con il suo “capability approach”. Lo sviluppo socio-economico richiede di mettere al centro la persona con ogni suo nuovo bisogno. Altrimenti, il benessere di ciascuno continuerà ad essere sacrificato sull’altare del profitto.