di Francesco Occhetta*

 
Il filone del cattolicesimo democratico è nato e cresciuto grazie ai cattolici che si sono occupati di curare e far crescere la democrazia come “luogo teologico” in cui incarnare la propria fede. Va riconosciuto che il carisma ha preceduto l’istituzione e il Magistero, grazie alle tre radici che hanno nutrito l’unico albero del cattolicesimo democratico. Nel 1919 con don Sturzo; nel 1946 con i costituenti cattolici, il personalismo di Maritain e la visione di Montini; nel 1994 con Scoppola, Elia, Martinazzoli, Castagnetti, De Mita, Bassetti, Bazzoli, Garavaglia, Astori, Bodrato, fino ad arrivare a Mattarella, quando cercarono di dare compimento al sogno di Moro della “democrazia compiuta”.
 
Qual è allora l’identikit del cattolico democratico? È anzitutto un forte riformista, lavora per programmi politici temperati, si caratterizza per l’arte della mediazione che non significa accontentare tutti ma rappresentare tutti, soprattutto i più deboli. È interclassista, competente sui temi concreti della politica e attento alla propria formazione. È costruttore di bene comune (prima di quello individuale) e di coesione sociale. Per il cattolico democratico la laicità nello spazio pubblico è il modo di dirsi cristiano maturo. Scoppola lo ha scritto così: «La laicità non riguarda solo gli Stati, le leggi, il modo di essere delle istituzioni: la laicità e prima di tutto un modo di vivere l’esperienza religiosa a livello personale e interiore; se manca questa condizione interiore anche gli aspetti istituzionali della laicità ne risulteranno indeboliti e alla fine compromessi». È un modo di stare nel mondo, da cattolici che ha permesso a migliaia di persone di riconoscersi senza conoscersi personalmente.
 
Il Magistero della Chiesa, nel suo cammino storico, ha riconosciuto il merito di questa esperienza.  Quando il 18 gennaio 1919 nasceva a Roma il Partito popolare italiano (Ppi), l’Italia stava piangendo i suoi circa 600.000 caduti e curando quasi un milione di feriti. Le politiche liberali e conservatrici del Governo avevano colpito il ceto medio e privato di qualsiasi riferimento politico l’elettorato cattolico. Quel colpo d’ala sciolse il “non expedit” della Chiesa, che impediva l’impegno diretto in politica.
 
Da quell’esperienza comunitaria coordinata da Sturzo nacque un partito laico, democratico e di ispirazione cristiana, con una precisa piattaforma programmatica: difesa della famiglia e libertà di insegnamento, referendum locali, centralità dei municipi e forme di previdenza sociale, rappresentanza proporzionale e voto alle donne, libertà della Chiesa e costruzione di un ordine mondiale nuovo. L’«Appello ai liberi e forti» non rappresentava un compromesso politico, ma una proposta diversa di sistema per ripensare la convivenza sociale a partire dalla Dottrina sociale della Chiesa, le cui fondamenta erano state poste dalla enciclica Rerum novarum di Leone XIII. È per questo che Sturzo fu «un riformatore gentile», di tradizione antiborghese e antistatale.
 
Nel 1946 i cattolici democratici compiono un passo in avanti, cambiano il paradigma filosofico: dall’ontologismo cristiano di Pio XII, di Gedda e dei padri della Civiltà Cattolica, scelsero il pensiero personalista di Maritain che Montini portò in Italia. Siamo a loro debitori della capacità di aver evitato la sovrapposizione tra il piano religioso e quello politico, in cui la sfera integralista e quella laicista si sarebbero fagocitate a vicenda. Altrimenti l’uomo credente e le comunità religiose rimangono integraliste, in cui si pretende di costruire una città terrena che abbia una specifica connotazione cristiana, fino a far coincidere il codice normativo religioso con quello civile.
 
Sul riconoscimento della legittima autonomia delle realtà terrene ha insistito Pio XII nei Radiomessaggi del 1942 e 1944. Papa Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, nelle pagine della Gaudium et Spes invece l’impegno politico è considerato una vocazione specifica nella Chiesa.
Negli anni Novanta la terza tappa del cattolicesimo democratico coincide con l’apertura magisteriale di una nuova stagione politica che il Compendio della dottrina sociale descrive al n. 406: «Un giudizio esplicito e articolato sulla democrazia è contenuto nell’enciclica Centesimus annus: “La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno”».
 
Antidoto della democrazia è il popolarismo e le comunità pensanti, mente e cuore del popolo. Male della democrazia sono invece le forme regressive di populismo che strumentalizza il popolo, sono al servizio dei ricchi e si pongono come la vera élite.
Al centro del pensiero cattolico democratico continua ad esserci il rapporto modernità/contemporaneità e masse che noi oggi chiamiamo popolo. La risposta è stata la democrazia. Ma il Novecento ha dato anche un’altra risposta, i totalitarismi.
 
La crisi dei cattolici democratici oggi – che non significa l’insignificanza ma l’aggiornamento della propria identità – è stata condizionata dal prevalere in questi ultimi 20 anni di esperienze di cattolici impegnati in politica altrettanto legittime, come quella per esempio dei “cattolici liberali progressisti” (una laicità orientata al centro politico) e quella dei “cattolici identitari democratici” che si richiamano all’unità nel partito unico.
 
Anche durante il fascismo era viva una “religione politica”, ma per il cattolicesimo democratico conta l’esperienza di fede da costruire in comunità attraverso la costruzione della società che è fatta di tensioni bipolari, direbbe Guardini: pienezza e limite, realtà e idea, locale e globale, tempo e spazio ecc. Anche nell’esperienza della DC i cattolici democratici sono stati il lievito, ma mai massa; non avevano come obiettivo quello di “costruire il partito della Nazione”, ma riattivare la vita dei corpi sociali trovando la sintesi tra le nuove visioni di futuro e le tensioni sociali.
Come eredità lasciano quella di concepire la politica come sostanza e non procedura, intesa come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile, scriveva Scoppola. Molti esponenti del cattolicesimo democratico come Moro, Bachelet, e Mattarella sono stati sacrificati, il loro è stato “un martirio politico”. Erano figli del Codice di Camaldoli in cui è scritto di essere disposti a dare la vita per il bene degli altri. Lo hanno fatto.
 
Per rigenerare questa esperienza occorre ri-connettere i molti politici locali, “nascosti” in molte in liste civiche o in minoranza nei partiti, e ripensarsi come nuova appartenenza europea, insieme a tanti altri credenti che considerano l’Europa come il nuovo spazio politico comune per costruire un’alternativa di sviluppo. Appunto, quello umano integrale di cui parla la Laudato si’ di Francesco e che ha insegnato Maritain.
 
*coordinatore Comunità di Connessioni
 
 
Articolo tratto da Vita Pastorale N°4 2020
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