È in corso in questi giorni il processo di conversione in legge del decreto n. 48, il “Decreto lavoro”, emanato dal governo lo scorso 4 maggio. Si tratta di uno dei dossier più caldi su cui è aperto il dibattito politico e che vede direttamente coinvolte anche le parti sindacali e datoriali (si veda Adapt, Decreto lavoro: una prima lettura). Nel testo del decreto sono contenuti diversi interventi, tra cui alcuni particolarmente scottanti come la riforma dei contratti a termine e quella del reddito di cittadinanza.
Sul primo aspetto, certamente il più divisivo, l’intento del governo è quello di favorire una forte semplificazione del sistema delle causali per i contratti a termine oltre i 12 mesi, allo scopo di smorzare le rigidità introdotte dal Decreto Dignità durante il Conte I. Facile immaginare come le parti datoriali e sindacali abbiano accolto la modifica con reazioni diverse: da parte della rappresentanza d’impresa vi è stato un plauso alla semplificazione operata dal governo mentre, lato sindacale, insieme alle principali forze di opposizione (M5S e Pd, ieri insieme in piazza a Roma), si è prevalentemente condannata una mossa politica che viene considerata un assist alla precarietà del lavoro. Al netto delle sfumature ideologiche, entrambe le posizioni partono da presupposti legittimi che mettono in evidenza come da una parte sia urgente combattere povertà e incertezza lavorativa, mentre dall’altra risulta difficile pensare di farlo attraverso un irrigidimento eccessivo di un mercato del lavoro che è in continua trasformazione e che quindi ha bisogno di “flessibilità buona”.
I dati possono certamente fornire al dibattito una minima oggettività. In Italia, infatti, non sembra (ancora) esserci un’emergenza contratti a termine: nel 2022 il nostro Paese registrava una quota di lavoratori (15-64 anni) a tempo determinato sul totale degli occupati di poco superiore alla media europea con il 16,9%, dietro a Olanda (27,7%), Spagna (21,2%) e poco sopra il Portogallo (16,6%) e la Francia (16,1%). Questa tipologia contrattuale, almeno nel nostro Paese, vede un’elevata diffusione tra i giovani ma la quota si assottiglia notevolmente al crescere dell’età e di un più solido bagaglio di esperienza e competenza. Anche dagli ultimi dati Istat emerge come l’aumento dell’occupazione sia prevalentemente trainata dai contratti permanenti, a testimonianza del fatto che molte imprese stanno puntando su forme contrattuali durature per trattenere i migliori talenti e i lavoratori più qualificati. Piuttosto, se parliamo di precarietà giovanile, una grossa fetta è data dalla eccessiva diffusione di tirocini extracurriculari, poco meno di 1 milione tra il 2019 e il 2021, spesso usati proprio al posto dei contratti a termine, per via del loro costo pressochè irrisorio, ma senza le rispettive tutele.
L’altro grande capitolo del Decreto è quello della riforma del reddito di cittadinanza, misura bandiera del Movimento 5 stelle, su cui il governo ha tentato la spallata con l’introduzione di un nuovo assegno di inclusione e di un supporto per la formazione e il lavoro. Entrambe le nuove misure saranno operative rispettivamente da gennaio 2024 e da settembre 2023. Al netto delle polemiche sui criteri di assegnazione del sussidio e sulle diverse classificazioni dei percettori, i riflettori non possono che essere puntati sul sistema dei sevizi per il lavoro per via dell’arduo compito che avranno nel supportare e attivare persone in stato di vulnerabilità e difficoltà sociale. Una sfida non facile per una struttura che, come emerge dai più recenti monitoraggi dell’Anpal, fatica ad andare oltre l’ingolfo delle prese in carico e degli adempimenti amministrativi. Anche i dati di un recente report su Garanzia Giovani, la politica del lavoro per i Neet (giovani che non studiano e non lavorano) partita in Italia nel maggio 2014, dicono di tempi di attesa biblici per l’offerta di un supporto: nelle regioni del sud parliamo di 221 giorni di attesa per i centri pubblici per l’impiego e di 77 per le agenzie private. Un dato che mette bene in evidenza due aspetti: quello della disparità territoriale del funzionamento dei servizi e quello che riguarda la grande differenza, in termini di efficienza e prontezza nell’offerta di un supporto, tra pubblico e privato.
Nell’attesa che il quadro definitivo della nuova legislazione sul lavoro prenda forma, non possiamo che augurarci che il dibattito non sia lasciato ad uno scontro, troppo spesso ideologico, che male si concilia alla rapidità delle trasformazioni in atto e alla conseguente necessità di dare risposte tempestive. È pur vero che gli interventi prospettati rappresentano una goccia in un oceano di questioni urgenti da affrontare: le pensioni, il crollo demografico, che pone a rischio la tenuta delle politiche sociali, e il riadattamento della forza lavoro per la transizione ecologica e digitale. Se non si provvede a progettare in modo sussidiario una infrastruttura di reti e servizi per il lavoro funzionanti, basata sulla collaborazione sinergica tra pubblico, privato e territori, che sappia tutelare la persona all’interno di transizioni lavorative sempre più frequenti (da lavoro a lavoro, da lavoro a formazione, da lavoro a temporanea disoccupazione, ecc.), ogni tentativo di rilancio del lavoro sarà vano. Occorre quindi impostare nuovi modelli di politica del lavoro che vadano oltre il monopolio del pubblico per dar voce alle tante realtà locali che sono a stretto contatto con i fabbisogni e le difficoltà dei territori. Da questo punto di vista il recente superamento dell’Anpal, l’Agenzia nazionale politiche attive lavoro istituita all’epoca del Jobs Act nel 2015, operato dal governo interroga gli osservatori su come la maggioranza e l’esecutivo intenderanno intraprendere un nuovo corso.
Ciò che sembra mancare al Decreto lavoro è una vocazione strutturale dell’intervento su alcune questioni cruciali. Nel Paese che ha i tempi di transizione scuola-lavoro dei giovani tra i più lunghi d’Europa (28 mesi) occorrerebbe investire maggiormente nella costruzione di reti di raccordo tra i due mondi per favorire un più agile inserimento delle nuove generazioni nel mercato del lavoro. In accordo con le Regioni e le parti sociali andrebbero aboliti i tirocini extracurriculari e rilanciato l’apprendistato allo scopo di garantire maggiori tutele e apporto formativo ai giovani. Per i lavoratori più anziani è invece urgente investire, come in parte si sta facendo con il Pnrr, sul fronte della formazione continua per garantire capacità e abilità produttiva, nonché su misure di conciliazione che sappiano creare un tandem con i nuovi lavoratori. La scommessa è dunque quella di adottare un approccio olistico al tema del lavoro senza procedere “a tappa buchi”, rincorrendo le emergenze del momento, ma provando a tracciare un futuro che metta insieme progresso e tutela della persona.