È noto: i salari dei lavoratori italiani non svettano.
Inferiori di 3.560€ a quelli dei colleghi europei, che si attestano su una media di 33.511€ lordi. Primi in classifica, tedeschi e francesi. Ad affermarlo è l’Eurostat nel suo consueto rapporto. Come ricorda il Global Wage Report, i redditi degli italiani sono più bassi del 12%.
Detto in altri termini, uno scenario poco roseo. Che l’inflazione aggrava. Ma c’è un dato altrettanto importante che non deve sfuggire: salari più bassi non necessariamente coincidono con un più basso potere di acquisto. E, se questo tiene, malgrado stipendi bassi, allora il lavoro può scampare le tenaglie della povertà.
È questa la ragione per cui l’interrogativo che deve provocarci è come aumentare, nell’attuale situazione, la capacità di spesa delle famiglie.
Ci sono almeno tre soluzioni.
Prima. Meno tasse, imposte e contributi sulle retribuzioni: il c.d. cuneo fiscale, che in Italia raggiunge il record dei 45 punti percentuali. Un reddito lordo di 2.000 euro si traduce in meno di 1.300 euro netti sul conto. Alcuni recenti provvedimenti dell’attuale Governo hanno provato a ridurlo ma la strada è ancora lunga.
A farsi carico del gap salariale non possono essere solo le imprese con una contrattazione collettiva a rialzo o, persino, con un salario minimo stabilito dalla legge. Un ulteriore colpo ai loro bilanci, già dissestati dal Covid, rischia infatti di destabilizzare l’intero sistema. Restano fuori i casi di grave sproporzione tra i redditi del vertice e quelli della base.
Seconda soluzione: tanti servizi di welfare. Da quelli di assistenza medica e trasporto fino a quelli educativi: sport, libri, cinema. Il motivo è semplice: garantire questa gamma di offerte equivale ad alleggerire il costo della vita a carico delle famiglie con conseguente ampliamento del potere di acquisto.
Il welfare è la prospettiva a cui guarda la “Generazione Z”. I giovani tra i 18 e i 24 anni sono interessati a raggiungere soddisfacenti livelli di benessere personale. A conquistarli, non bastano, come nel passato, la sicurezza di un salario, né il famigerato posto fisso. Lo afferma il recente report globale di McKinsey “Gen What? Debunking age-based myths about worker preferences”.
La terza ed ultima soluzione ha, invece, un respiro più ampio: la rieducazione finanziaria dei lavoratori. Una quota di potere di spesa è, infatti, mangiata dai debiti che le famiglie contraggono per soddisfare bisogni effimeri.
Ad essere inseguito è uno stile di vita ben oltre le proprie potenzialità economiche. Il modello è quello della “famiglia Ferragni”: telefono cellulari e auto di lusso, vacanze, cene e abitazioni costose, shopping oltre limiti ragionevoli. Con in tasca, il sogno di diventare famosi e ricchi Youtuber e Tiktoker. L’impressione è quella di uno stordimento collettivo.
In economia i miracoli non esistono. Anche quello che aveva inebriato l’Italia negli anni Ottanta si è rivelato un’illusione. L’attuale debito pubblico sfiora, in rapporto con il Pil, la percentuale del 140%.
Secondo il Rapporto Nazionale sul sovraindebitamento del 2023, sono 7 milioni gli italiani in questa situazione: più di una famiglia su un quattro. Cresce anche la preoccupazione dei direttori del personale delle medie e grandi aziende per le diffuse cessioni del quinto dello stipendio a garanzia dei debiti e, nei casi patologici, per i conseguenti pignoramenti.
In definitiva, per combattere il paradosso della povertà che il lavoro può generare, occorrono ricette nuove.
Aristotele, nel IV libro dell’Etica nicomachea, definiva “μεγαλοψυχία”, che si traduce in magnanimità, la virtù di chi era in grado di compiere il passaggio dai limiti del “già” verso lo spazio del “non è ancora”. Il passaggio dall’ “essere vivi” all’ “essere viventi”.
Ecco. Ad infliggere un colpo al lavoro povero, potrà essere soltanto la mano di uomini “magnanimi”.