(Fotografia di proprietà del sito di Palazzo Chigi)

Il Consiglio dei Ministri ha recentemente approvato un disegno di legge che reca importanti modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale e all’Ordinamento giudiziario. Oltre all’inappellabilità da parte del pubblico ministero di alcune sentenze di proscioglimento, ai limiti posti alla diffusione delle intercettazioni, all’interrogatorio preventivo rispetto all’applicazione della misura cautelare in carcere – che dovrà essere approvata da tre magistrati al posto di uno -, il provvedimento prevede l’abrogazione della fattispecie dell’abuso d’ufficio (articolo 323 del c.p.) e introduce un’ampia riformulazione del reato di traffico di influenze illecite (articolo 346-bis c.p.) prevedendo l’aumento della pena minima e il restringimento del perimetro della fattispecie (escludendo le ipotesi di millanteria).

Secondo quanto illustrato dal Ministro Nordio, l’abrogazione della norma che incrimina l’abuso d’ufficio scaturisce dalle tante archiviazioni e assoluzioni, nonché dalle pochissime condanne per il reato in questione; inoltre, non determinerebbe alcun vuoto di tutela, in quanto l’ordinamento già prevede diverse fattispecie di reato volte a contrastare i pubblici amministratori infedeli.

Il reato non è ancora stato cancellato e, per diventare legge a tutti gli effetti, il testo della riforma della giustizia dovrà essere approvato dal Parlamento. Sull’abrogazione del reato si sono dichiarate favorevoli tutte le forze della maggioranza e anche i partiti del terzo polo, contrarie le altre forze dell’opposizione (M5S, PD, Verdi e Sinistra Italiana), che, invece, auspicano una riformulazione del reato e non l’abrogazione, in quanto, secondo la loro opinione, allontanerebbe l’Italia dagli altri partner Europei sul fronte del contrasto ai fenomeni di corruzione.

L’effetto concreto dell’intervento normativo, al di là del piano strettamente giuridico, è maggiormente volto ad incontrare il favore degli amministratori locali degli enti pubblici territoriali, soprattutto in vista dell’intensa azione amministrativa che si apprestano a realizzare con l’utilizzo dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (c.d. PNRR).

Il tema è, infatti, molto caro a Sindaci, Presidenti di Regione e amministratori locali che ascrivono il reato di abuso d’ufficio, ritenuto troppo generico e di difficile comprensione, tra le cause della c.d. “paura della firma” e della “burocrazia difensiva”: quei fenomeni che frenano le decisioni di chi amministra per il timore di finire sotto indagine.

«I sindaci non chiedono né immunità né impunità – osserva il presidente dell’Anci, Antonio Decaro – ma solo di poter rispondere di quello che fanno sulla base di regole più chiare. Nella sua genericità, il reato di abuso d’ufficio non serve a colpire chi sbaglia ma in compenso una semplice iscrizione nel registro degli indagati può arrecare danni gravissimi all’immagine pubblica e alla dignità privata di persone innocenti. Non può esistere un reato di ruolo».

I numeri raccolti dal Ministero della Giustizia sul reato di abuso d’ufficio attestano come ormai si tratti di una fattispecie sempre meno utilizzata: lo dimostra la diminuzione di quasi il 40% in cinque anni del numero dei procedimenti. I dati, inoltre, parlano di molte indagini aperte ma pochissime arrivate a processo: nel 2021, su 5.418 procedimenti definiti dall’ufficio del giudice per le indagini preliminari, le archiviazioni sono state 4.613, oltre l’85%; ancora di meno le condanne: 9 le sentenze pronunciate nel 2021 dai giudici per le indagini preliminari, oltre a 35 sentenze di patteggiamento. Sempre nel 2021, i procedimenti per i quali è stato disposto il rinvio a giudizio sono stati 370 e, su 513 procedimenti definiti, le condanne sono state solo 18.

Si tratta di evidenti segnali che dimostrano, da un lato, l’assoluta sproporzione tra un risultato finale chiaramente irrisorio in termini di condanne, a fronte del rischio del pubblico amministratore di essere indagato per abuso d’ufficio – con la conseguente produzione di effetti frenanti sulla gestione della cosa pubblica – e, dall’altro, come tutte le riforme realizzate negli anni non siano riuscite a migliorare l’efficienza del reato.

La tormentata storia normativa dell’abuso d’ufficio – che giunge ora alla sua quarta modifica con la proposta della definitiva abrogazione – è quella della continua ricerca, per via normativa e giurisprudenziale, della delimitazione della condotta penalmente rilevante all’interno di una fattispecie di reato congegnata per assolvere una funzione repressiva di chiusura dell’insieme dei reati dei pubblici amministratori, configurabile “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”.

La prima riforma del reato di abuso d’ufficio risale al 1990, con il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, e ha cercato di chiarire l’ambito della norma, all’epoca caratterizzata da un’elevata indeterminatezza; nel 1997, con il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, è stata fatta una seconda riforma per limitarne l’ambito applicativo, introducendo il principio del cosiddetto “dolo intenzionale”. L’ultima riforma del reato di abuso d’ufficio, promossa nel 2020 con il Ministro Alfonso Bonafede, è stata annunciata come un intervento volto alla semplificazione dei procedimenti amministrativi, all’eliminazione e alla velocizzazione degli adempimenti burocratici e ha prodotto l’attuale formulazione della norma, secondo cui l’abuso d’ufficio si verifica solo quando c’è la “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto”. Oggi la proposta di riforma prevede l’abolizione definitiva del reato.

Se il reato di abuso d’ufficio dovesse essere abrogato, determinate condotte commesse dal pubblico ufficiale non avranno più alcun rilievo penale, ma potranno continuare a rilevare sul piano amministrativo e nell’ambito delle responsabilità erariali e contabili. Le principali critiche che vengono mosse alla proposta del Ministro Nordio fanno capo al ricercare una soluzione diversa dall’abrogazione secca dell’art. 323 c.p. per fronteggiare i problemi della c.d. paura della firma e della burocrazia difensiva: l’abrogazione rappresenta certamente l’intervento più facile ma non risolutivo per problemi così complessi.

Secondo il Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, l’abuso d’ufficio è un reato molto difficile da dimostrare (ne è conferma il basso numero di contestazioni e l’alto tasso di archiviazioni) perché richiede una soglia probatoria molto alta e, se contestato da solo, spesso non è sufficiente per condurre le indagini. Questo, anche in considerazione delle soglie di pena previste (da uno a quattro anni di reclusione) che non consentono l’uso delle intercettazioni. Ad ogni modo il Procuratore ne riconosce l’utilità del presidio, in quanto reato “spia” di potenziali altre condotte delittuose (corruzione, concussione, turbativa d’asta) che darebbero maggiore sostanza all’accusa.

Secondo il Prof. Gian Luigi Gatta, Professore Ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano, l’incondizionata abolizione di una fattispecie di chiusura del sistema di repressione dei reati contro la pubblica amministrazione, come quella dell’abuso d’ufficio, lascerebbe intollerabili e irragionevoli vuoti di tutela: si pensi ai fatti non riconducibili ad ipotesi di corruzione, concussione o turbativa d’asta (ad es. le procedure dei concorsi pubblici che non riguardano l’acquisizione di beni o servizi, ma l’assunzione di personale nella pubblica amministrazione con procedure che implicano una valutazione comparativa) che rimarrebbero privi di sanzione penale, con preoccupanti conseguenze anche sul piano della prevenzione. Tali considerazioni assumono maggiore rilevanza in un sistema come il nostro, nel quale, quando l’intervento penale nel settore pubblico si ritrae, non trovano spazio – come invece sarebbe opportuno – forme diverse di responsabilità, i.e. quella disciplinare o contabile, che potrebbero soddisfare sia l’esigenza repressiva che preventiva, fungendo da deterrente alla mala gestio della cosa pubblica. Ne è dimostrazione il numero dei procedimenti disciplinari avviati nei confronti degli amministratori pubblici, di gran lunga inferiore rispetto a quello dei procedimenti penali.

Inoltre, viene segnalato da più parti il fondato rischio che l’abolizione dell’abuso d’ufficio che non sia accompagnata da una complessiva riforma dell’intero sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione possa spingere le Procure ad applicare estensivamente altri reati con pene anche più severe rispetto alla previsione dell’attuale norma. Infine, l’impatto dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio sui numeri del contenzioso penale sarebbe davvero molto modesto, visto l’ormai possibile limitato ambito di applicazione delle norma in questione a seguito della riforma del 2020.

Sarebbe, pertanto, opportuno individuare una soluzione intermedia, che eviti l’abrogazione tout court della norma, con il rischio di dare origine a possibili vuoti di tutela e impunità, ed impegni il legislatore a correggere ulteriormente la formulazione del reato conferendogli contorni maggiormente definiti in termini di certezza del precetto penale. All’attività legislativa si dovrebbe, poi, accompagnare, da parte delle Procure e dei Tribunali, un maggior rigore nell’interpretazione e nell’applicazione della norma, al fine di eliminare molte delle criticità di cui oggi si discute.