di Francesco Occhetta
 
La parola re-surgere ci parla di chi si “rialza dallo stare piegato”. È una legge inscritta nella creazione: tutto ciò che è caduco nasce nel suo al-di-là, nello stesso modo con cui la notte lascia spazio al giorno, il bruco si trasforma in farfalla e il buio (interiore) improvvisamente lascia spazio alla luce.Chi risorge nella vita, lo fa dopo aver attraversato la morte: un tradimento, un fallimento, una malattia o una violenza. Lo stesso vale per la vita delle società chiamate ad attraversare pandemie, stagioni di corruzioni, guerre. La vita che viene dopo germina sempre da una morte. È una dinamica intrinseca alla nostra esperienza di creature: mentre ci si consuma nel dolore per ciò che finisce, si avverte anche la nostalgia della forza della vita che si trasforma.
 
Eppure, mentre siamo spinti dal desiderio di abbracciare “più-vita”, nello spazio pubblico e nel dibattito sociale e politico è scomparso il termine risurrezione. Sembra quasi che appellarsi alla parola “risurrezione” ci renda meno uomini e meno donne e sia una diminutio culturale che ci fa diventare persone deboli e un po’ scaramantiche. Anche per i credenti, da quando nel secolo passato la cultura ha affermato che “Dio è morto”, la parola “resurrezione” si sussurra quando va bene, mentre la si confonde con la reincarnazione quando va male. Davvero, invece, non abbiamo bisogno di risorgere? Possono la cultura e la politica dare speranza senza usare questo termine? Non è forse questa una parola che indica una strada su come ripartire?
 
Letta in chiave antropologica la risurrezione è anzitutto esperienza di prossimità che è solo e sempre nell’al-di-là del proprio orizzonte. Anche nella vita politica l’infinito si sperimenta “nel passo in più”. Coloro che si fermano nell’al-di-qua dell’esperienza personale, sociale e politica, vivono “nella morte”, intesa come negazione dell’apertura all’infinito e rimpianto di un passato che non c’è più. Invece, come afferma il gesuita Michael de Certeau nel suo volume Mai senza l’altro: «L’essere si trova donandosi. La libertà si costruisce rischiandosi. L’uomo nasce nel suo aldilà». Così in politica, come nella vita privata, parole e scelte che rimangono nell’al-di-qua sono già morte.
 
Occorre però fare un passo in più. La risurrezione non è l’esperienza del “tornare indietro” dal regno dei morti, che non riuscì a Euridice malgrado l’amore di Orfeo, non è l’eterno ritorno del tempo pensato dai Greci, né un “ripristino di sistema” del pc. La resurrezione è un’esperienza di relazione con Dio e di immersione nella nostra creaturalità. La “definizione” di risurrezione nasce dalla contemplazione della croce di Cristo – e con lui di tutti i crocifissi della storia – non per capirla con la ragione, “ma per aggrapparci ad essa” nei momenti del bisogno, come scrive Bonhoeffer.
 
La morte vince sulla vita biologica, ma l’amore distrugge la morte e ciò che rimane è la Vita in Dio. L’esperienza di Gesù lo rivela: egli muore “in” Dio, direbbe Eberhard Jüngel. Non muore Dio, ma il dolore e la morte sono esperienze di Dio trinitario (il Padre, il Figlio e lo Spirito) che assume in sé la morte di Gesù. Questo è il punto più alto dove l’amore può arrivare. Per questo «un Dio crocifisso non corrisponde a nessuna concezione religiosa o atea. È una rappresentazione oscena, fuori della scena del nostro immaginario: è la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e l’idolo», ha scritto p. Silvano Fausti.
 
Secondo S. Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, la conoscenza intellettiva può solo seguire l’esperienza affettiva della risurrezione. Intellettualmente si può solo definire ciò che si è conosciuto interiormente. Lo dimostra la dura legge dell’amore che costringe a portare il peso della croce, a sacrificare l’io per il noi, a non scappare davanti a chi soffre. Altrimenti i conflitti tra cultura laica e religiosa generano lo stesso problema: dall’immagine di Dio che presuppongono, fanno emerge il Dio in cui credono.
 
Questo tempo di epidemia ci chiama a scegliere la direzione verso cui andare come comunità sociale e politica. La radice della parola “re-surgere” è la stessa: davanti alla mortalità e ai cambi d’epoca si può insorgere, “levarsi contro”, oppure risorgere, “elevarsi verso”, come i girasoli con il sole. Per la cultura contadina “resurrezione” è ciò che nasce quando un seme muore. Quando la giustizia è riparativa e non vendicativa, il lavoro è pagato, la dignità è rispettata, la prossimità è una rinascita sociale, la salute è garantita, le comunità sono l’antidoto a ogni forma di populismo.
 
È per questo che in questa Pasqua dobbiamo “elevarci verso” per trovare un equilibrio tradito. Lo ha di recente ricordato anche il Papa: «Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la natura non perdona mai». Ritrovare un equilibrio con la natura che si ribella, anche attraverso un virus, è superiore allo sforzo che può fare la cultura per uscire da questa crisi.
 
La sfida della nostra fede non è credere nel Risorto che è stato crocifisso, ma nel Crocifisso che è risorto. Per questo la resurrezione è il lato luminoso della croce e si fonda su tre elementi antropologici. L’attesa nel tempo, la resurrezione non è automatica, non segue la morte immediatamente, ma devono passare “tre giorni”. Durante questa “assenza” e in questo “silenzio” di Dio siamo chiamati a giocare il nostro affidamento. Inoltre, nelle Scritture la “categoria” per riconoscere il Signore risorto è quella delle apparizioni che non rendono “soggettiva” la risurrezione ma personale. Infine la risurrezione dà la forza per annunciare che “Cristo è veramente risorto” e che davvero “la vita vince la morte”.
Davanti alla risurrezione di Cristo, il dubbio attraversa tutti i Vangeli! Il card. Martini lo ha scritto a chiare lettere: «Ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa. […] La chiarezza e la sincerità di tale dialogo mi paiono sintomo di raggiunta maturità umana».
 
Ciò che la risurrezione attiva in noi è ben descritto da un gesuita con cui vivo, Jean-Pierre Sonnet, in una sua poesia dal titolo Caviglie sciolte: «Il miracolo di correre, con un passo che non tocca terra ed è reso più lungo dalla notizia. La tomba era aperta e lui, già lontano, fra il partire e il tornare. “Eccolo: viene, saltando per i monti, balzando per le colline” (Ct 2, 8). E noi, a volare e rimbalzare sulla ghiaia, la fucina del cuore e dei polmoni che divampa per un respiro intenso, immensamente profondo. Il vangelo nei talloni, l’agilità del piede, la scioltezza delle caviglie; e la gioia, come una distanza da percorrere!» Da allora per i cristiani la Pasqua è il ricordo della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto, ma è, soprattutto, la festa del corpo che vive sotto la carne e che la morte non può distruggere.