Tentare una ricostruzione unitaria e coerente dell’idea della giustizia in Dante è, “se non impossibile, quantomeno assai difficile”. Ed è proprio da questa premessa che, la Professoressa Marta Cartabia, in occasione della Lectio magistralis dal titolo “Molti hanno giustizia in cuore”, tenutasi presso la Casa di Dante (Roma), lo scorso 7 maggio, ha voluto esplorare cinque delle innumerevoli vie della giustizia che Dante percorre nella Commedia: il contrappasso, la proporzione, la vendetta, le eccezioni alle regole, la riparazione.

Il contrappasso, tipica forma della giustizia retributiva, è, da una parte, la pena da pagare per il male compiuto, ma, dall’altra, descrive la condizione in cui si trova l’uomo quando nella vita terrena compie il male. Non è un caso che, proprio all’Inferno, gli abitanti della nona bolgia – tra cui Bertran de Born – sono condannati a un crudele martirio di natura fisica, in cui il corpo è perennemente segnato da una ferita destinata a rimarginarsi per sempre. Lo stesso eterno ritorno che sembra affliggere i carcerati segnati dalla recidiva: effetto di quando la pena è volta alla punizione e non alla riparazione.

La proporzionalità – architrave degli ordinamenti contemporanei – è centrale nel pensiero di Dante, il quale, nella Monarchia, osserva che “il diritto è una proporzione reale e personale nella relazione tra uomo e uomo, la quale, se conservata, conserva la società, e, se corrotta, la corrompe”. Il fatto che la proporzionalità sia al centro del pensiero dantesco testimonia, secondo la Professoressa Cartabia, “la profondità del suo sguardo e la riflessione sulle cose umane che lo porta ad attingere a degli strati così essenziali dell’esperienza umana che continuano a parlare oggi a tutti gli uomini e a tutte le latitudini”. Dalla proporzionalità dell’uso del potere rispetto alla vita sociale, alla proporzionalità quale limite per la relazione tra le diverse sfere di libertà e l’interesse generale. Inoltre, il criterio della proporzionalità deve accordarsi alle pene comminate dal legislatore: “C’è sempre un eccesso di forza dietro alla corrispondenza della pena”, per usare una celebre espressione di Justin Steinberg.

Dante crede che lo scopo del diritto sia garantire la pace sociale.

Eppure, non mancano dei passaggi in cui il Poeta, sulla scia del contesto sociale e culturale dell’epoca, sembra aderire alla convinzione che la vendetta sia un’inclinazione e un dovere da onorare. Quella vendetta che “non risolve il problema dell’ingiustizia e del male, anzi lo moltiplica e lo porta fino a distruggere la società”. Nel Canto XXIX Dante incontra Geri del Bello, suo antenato, indignato poiché nessun familiare aveva vendicato la sua morte violenta. Dante, da un lato, sembra comprendere l’atteggiamento disdegnoso del suo parente, ma dall’altro sembra disapprovare la logica della vendetta, quale istinto tanto “nocivo e pernicioso”.

Nell’architettura del poema, alla gravità del peccato corrisponde la severità della pena, misurata dai giri di coda di Minosse, che indicano il girone in cui ciascuna delle anime viene dislocata. Tale costruzione contiene eccezioni alle regole. L’ex ministra della Giustizia evidenzia proprio questo paradossale atteggiamento di Dante: creare un’elaborata geografia normativa, per esplorarne le eccezioni. Le regole nella Commedia vengono velocemente infrante: “i Pagani sono salvati; i dannati compatiti; i giuramenti infranti; le condanne ridefinite”. Marta Cartabia eccepisce che la nostra concezione della giustizia, figlia dell’illuminismo, richieda un’applicazione troppo rigida delle regole e delle leggi.

Infine, la Professoressa Cartabia insiste su un tema a lei molto caro: la giustizia riparativa. In Purgatorio le pene, a differenza di quelle dell’Inferno, non sono definitive, ma sono un cammino di redenzione verso una via d’uscita: “a riveder le stelle”. Al ghiaccio infernale in cui il dannato, oltre a subire la pena, è tormentato dagli altri che sono parte della sua afflizione, si contrappone il calore delle relazioni, di cui è ricco il Purgatorio perché la presenza degli altri è decisiva per il cammino riparatore. La funzione della pena nel Purgatorio è quella di risanare, di ricucire una ferita attraverso una punizione che non infligge un dolore fine a sé stesso, ma è rivolto a rimediare il male commesso. Il senso della giustizia che la Profesoressa Cartabia vuole trasmettere si ispira all’esperienza del Sudafrica post-Apartheid, all’esperienza colombiana delle Farc, ma anche all’esperienza nostrana degli incontri tra le vittime degli anni di piombo e gli ex terroristi. La giustizia dell’incontro, del guardarsi in faccia, del guardare i danni provocati dal male compiuto, al fine di ricostruire le relazioni ferite.

Contrappasso, proporzione, vendetta, eccezioni alle regole, riparazione.

Sarebbe una forzatura, secondo Marta Cartabia, di fronte a questa poliedricità delle immagini della giustizia, provare a capire quella che il poeta presceglie e indica al suo lettore come l’ideale a cui ispirarsi.

Dante, come tutto il pensiero giuridico medievale, vede convivere varie forme di giustizia eterogenee fino ad arrivare alla misericordia. Infatti, nel mondo vediamo come fogli sparsi ciò che in Dio è unito in un volume unico, e ha dunque un ordine e un senso. Solo al cospetto della visione divina possiamo vedere “legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna”.

I tentativi di aspirare alla giustizia sono molteplici, ma sempre parziali, sempre imperfetti rispetto a quel bisogno di giustizia infinito, che sfugge alla capacità umana di darsi una risposta. Tutti i tentativi, però, rimarcano un dato: “la sproporzione tra l’attesa infinita e la risposta limitata, tanto necessaria quanto sempre insufficiente della giustizia umana (quella dei tribunali, delle sentenze, delle corti), rispetto all’attesa che abbiamo in cuore”.

La sentenza più perfetta e più giusta non è in grado di ridonare alle vittime di gravi reati la quiete che cercano. Dante stesso ci dice che la giustizia è un attributo solo di Dio, che sfugge alle capacità umane. Egli sottolinea la differenza tra la giustizia umana e la giustizia divina: coloro che noi condanneremmo vengono salvati dalla misericordia divina, mentre quelli che noi giustificheremmo vengono condannati.

L’ex ministra della Giustizia ha terminato il suo intervento, invitando gli operatori del diritto a prendere atto della nostra finitudine di fronte a Dio e a giudicare con prudenza (“E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar”; o ancora, “or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna?”; o ancora, San Tommaso nel canto XIII, “non sien le genti, ancor, troppo sicure, a giudicar, sì come quei che stima le biade in campo pria che sien mature”).

L’intervento si è concluso con una metafora che trae spunto da una poesia di Eugenio Montale: la giustizia a cui aspiriamo, che abita nel nostro cuore, è un po’ come l’orizzonte, porta in sé la scritta “più in là”. L’esortazione è quella di continuare a camminare, nonostante l’orizzonte sia sempre oltre, perché l’esigenza di giustizia implica una ricerca instancabile verso un oltre “a cui forse non sappiamo dare un nome, ma senza il quale, anche la giustizia umana, è impossibile”.