La giustizia riparativa si è trasformata da un vento aliseo a un vento maestrale. La Riforma Cartabia (decreto legislativo n. 150 del 2022) ha introdotto programmi che mettono la vittima nella condizione di perdonare e l’autore del reato in quella di pentirsi, grazie al prezioso aiuto di un mediatore.

L’obiettivo è quello di riparare una relazione infranta. Quello che la tradizionale giustizia, legata alla funzione retributiva della pena, non è mai riuscita a mettere a segno. Già nel 2016, padre Francesco Occhetta aveva intuito la straordinaria portata di questo esperimento con il volume “La Giustizia capovolta. Dal perdono alla conciliazione”.

Padre Pietro Bovati, durante l’iniziativa promossa dalla Fondazione Fratelli Tutti il 4 marzo 2022 in Vaticano, lo ha chiarito: la giustizia è tale quando è anche riparativa. Tutta la giustizia divina si fonda sul perdono del colpevole. Iconica la vicenda di Giuseppe che, come si legge nelle Sacre Scritture, perdona i suoi fratelli. Una scintilla di divino si intravede anche nel perdono che la signora Gemma Capra ha offerto agli assassini del marito: il commissario Calabresi.

I conflitti del diritto penale non sono gli unici che il soffio della riparazione può sciogliere. Ad attenderlo, ci sono anche quelli da cui è abitato il diritto del lavoro. Lo insegna la vicenda del licenziamento disciplinare. A contraddistinguerla è l’espulsione del lavoratore dall’azienda per una condotta ritenuta illecita. La giusta causa o il motivo soggettivo sono le ragioni che lo sorreggono.  L’esperienza consegna un dato eloquente: la frattura nella relazione che il licenziamento causa difficilmente si ricompone. E questo sia quando esso è giusto, sia quando non lo è.

Nel primo caso, il datore di lavoro si percepisce “vittima” del lavoratore, “reo” di aver rotto il “vincolo fiduciario”. La sua riabilitazione è impedita anche come persona, oltre il luogo di lavoro. Nel secondo caso, questa dinamica è invertita. A riparare la relazione, non basta nemmeno la reintegrazione in azienda su ordine da un giudice. Il senso di rivalsa che monta nel lavoratore per aver subito nella “carne” un torto, trasforma il lavoro in un calvario. A ciò si aggiunge, con il tempo, il rimorso di chi lo ha inflitto, che alcune volte degenera in malattia.

I momenti in cui, nell’ambito del rapporto di lavoro, la riparazione può operare sono due. Il primo è ex ante. La fiducia tra le parti del rapporto è come una corda che si consuma nel tempo. Promuovere l’incontro, fatto di un dialogo franco, ai primi segnali di conflitto, è una delle soluzioni. Così, tornerebbero ad essere luoghi vivi quelle aziende degenerate in luoghi anonimi in cui l’uno non conosce l’altro, il superiore i suoi riporti, le ragioni di uno o di un altro atteggiamento.

Il secondo momento è ex post, quando la relazione è già rotta. Già esistono procedure di conciliazione ma non hanno una finalità riparativa. Generalmente, prevale quella di prevenire lo scivolamento del conflitto nelle aule di tribunale. In sede sindacale, arbitrale, o dinanzi agli Ispettorati del Lavoro e alle Commissioni di Certificazione, hanno la meglio soluzioni semplicemente economiche.

A promuovere la riparazione potrebbe essere una figura nuova: quella del mediatore “lavorista”. La sua istituzione potrebbe essere prerogativa dei contratti collettivi nazionali e aziendali di lavoro. La Riforma Cartabia ha candidato gli avvocati ad assumere questo ruolo ma occorre una formazione ad hoc, altrimenti la logica del conflitto, ancora pervasiva nel lavoro, potrebbe segnarne il fallimento.

Uno dei timori che la giustizia riparativa solleva è quello che, a causa sua, i tradizionali dogmi giuridici soccombano sotto il “buonismo” del perdono. Secondo essi, la colpa chiama la pena. Il filosofo De Maistre affermava che “supplicium” deriverebbe da “sub-pleo” nel significato di “rendere piena di nuovo” quella voragine che l’illecito ha aperto.

Si tratta di un timore ingiustificato. La giustizia riparativa, in ogni sua sfaccettatura, non suggerisce di abiurare al diritto ma di “renderlo pieno” di umanità. Di riscoprire il suo volto umano contro la deriva tecnocrate. In una parola sola, di impreziosirlo. Lo insegna la filosofia giapponese del “kintsugi, che letteralmente significa: “riparare con l’oro”, secondo cui ciò che è riparato si trasforma in opera d’arte. Ecco, ogni volta che il diritto sarà capace di questo, quella del giurista sarà stata una missione degna di essere portata a compimento.