Giorgio Napolitano ha segnato alcuni primati: “re Giorgio” è stato il primo presidente della Repubblica italiana ad essere rieletto (2006-2013 e 2013-2015); Kissinger lo definiva “il mio comunista preferito”, in quanto noto comunista con simpatie atlantiste; primo e unico membro del Partito comunista italiano a insediarsi al Quirinale. Proveremo a ripercorrere tre aspetti di un presidente che, in un partito e in un periodo piuttosto complesso, ha dedicato la propria vita all’impegno politico, alla fine, per il bene comune del Paese.

La Presidenza Napolitano sotto il profilo istituzionale

Per valutare la presidenza di Napolitano bisogna osservare cosa il Capo dello Stato è chiamato a fare dalla Costituzione. Deve essere un «arbitro supremo» a cui spetta il compito di «regolatore ed equilibratore fra tutti i poteri e organi dello Stato» (cfr. Meuccio Ruini in Costituente il 19 settembre 1947). Per un governo parlamentare «occorre che il capo dello Stato non sia né troppo debole né troppo forte» (cfr. Tosato, 1947). Questo aspetto di forza e di debolezza ha caratterizzato anche il doppio mandato del presidente Napolitano. Infatti, quando i Governi hanno forti maggioranze in Parlamento, il presidente della Repubblica si limita ad essere un notaio; quando invece Governo e Parlamento si contendono l’indirizzo politico o sono deboli, evocano la necessità di un presidente interventista e «parafulmine», a cui tutti si appellano.

Napolitano esercitava un soft power: invece di rinviare una legge, chiamava il presidente del Consiglio o il ministro competente per elaborare strategie alternative; invece di non emanare un decreto-legge, rappresentava al Governo i dubbi della società civile. Tuttavia, intervenire politicamente sulle questioni ha trasformato un’eccezione in prassi, fino ad occupare lo spazio che, in una democrazia parlamentare equilibrata, è dei partiti. L’8 ottobre 2014, Napolitano manda l’unico messaggio formale alle Camere sul tema delle carceri e della giustizia. Tuttavia, con lui diminuiscono gli atti di clemenza di grazia: sono stati appena 23, a differenza dei 339 di Scalfaro o dei 1.395 di Cossiga e dei 6.095 di Pertini. Ma c’è di più. Intervenire nel merito ha rischiato di strumentalizzare i poteri del capo dello Stato, non a livello formale — perché a controfirmare è sempre il Governo —, ma sul piano sostanziale e politico. Gli esempi più noti sono il silenzio di Napolitano sul Lodo Alfano e la gestione del caso Englaro, quando, il 6 febbraio 2009, decide di non firmare il decreto varato dall’Esecutivo per bloccare l’alimentazione forzata.

Le decisioni “politiche” di Napolitano

Il punto decisivo per la presidenza Napolitano, però, è politico. Si tratta di una svolta verso un atteggiamento che, ragionando sulle macrocategorie, ha fatto discutere di “monarchia costituzionale temperata” (cfr. Clementi, 2014; Ceccanti 2015). Riguarda, cioè, la gestione della crisi di governo del 2011, quando il IV Governo Berlusconi è sotto pressione per la grave condizione di speculazione finanziaria in atto e per la pendenza di una gestione europea della dei conti dello Stato. L’8 novembre 2011 Berlusconi si dimette senza passare per un vero e proprio voto di sfiducia in Parlamento. Il giorno dopo Napolitano nomina senatore a vita Mario Monti e dopo tre giorni gli affida l’incarico di formare un Governo ‘tecnico’. È l’ultimo atto di uno scontro politico fatto in punta di fioretto, con uno stile opposto a quello diretto tra Quirinale e il centro-destra sperimentato, ad esempio, negli anni della presidenza Scalfaro. Napolitano rimane super partes anche quando le conseguenze della rottura tra Berlusconi e Fini avrebbero potuto far nascere un centro-destra e (forse) anche un Governo alternativo a Berlusconi. Decide di parlamentarizzare la crisi con il voto di fiducia, lasciando quasi un mese di tempo al presidente Berlusconi per ricompattare la maggioranza. Tuttavia, quell’evento segna un prima e un dopo nella presidenza Napolitano: da «garante» egli diventa «governante»; appoggia Fini da garante, prepara il governo Monti da governante a causa dell’emergenza data dall’Europa, dal Fondo monetario, dal livello alto dello spread e dai titoli di Stato invenduti.

Nell’arco della sua esperienza al Quirinale, Napolitano interloquisce con sistemi politici sempre diversi, interpretando il suo mandato in modo coerente con le diverse evoluzioni. All’inizio del suo mandato (2006) il centro-sinistra stava cercando soluzioni alla crisi dell’Ulivo (che arriveranno con il lancio del Partito Democratico) e il centro-destra berlusconiano era forte e coeso. Invece, alla vigilia del secondo mandato (2013), il PD di Bersani è debole e il populismo incalza. Eppure Napolitano, in quel momento resta piuttosto prudente; rimane un dubbio di quel momento: per quale motivo, dopo le elezioni politiche del 2013, non abbia assegnato al segretario Bersani un vero e proprio incarico di formare il Governo, limitandosi ad affidargli un incarico esplorativo, limitandone le aspirazioni concrete di premiership. La presidenza Napolitano ha resistito anche ai duri attacchi del populismo alle istituzioni, da parte della Lega Nord e dell’Italia dei Valori di Di Pietro, prima, e del Movimento di Grillo alla fine della sua presidenza.

Dopo la caduta di Monti che, scendendo nell’agone politico, tradisce il disegno e l’operazione del presidente Napolitano, la candidatura di Enrico Letta viene preparata con gli stessi criteri dal presidente. È simbolico un fatto: per la prima volta nella storia della Repubblica un presidente esce incontro alla stampa insieme al presidente del Consiglio incaricato per investirlo direttamente. Nel frattempo, Napolitano appoggia l’operazione di Todi — con Riccardi, Balduzzi, Passera, la Coldiretti, la Cisl di Bonanni ed altri — per cercare di ricompattare il mondo cattolico, e nomina la commissione dei saggi (solo uomini) rappresentativa di tutti gli schieramenti per ripensare le riforme costituzionali. Lo scettro però gli viene tolto dal PD di Matteo Renzi, con cui nemmeno aveva fatto i conti e che ha vissuto di brillanti tattiche prive di strategie politiche, provocando diverse scissioni interne.

Il rapporto di Napolitano con i pontefici e la fede

Il presidente Napolitano si è rivelato un laico rispettoso e un interlocutore credibile nei confronti della Chiesa, non si è mai travestito da ateo devoto e ha sempre rispettato i ruoli e le credenze. Il suo rapporto personale con i due ultimi Pontefici è andato oltre il protocollo diplomatico. Per esempio, nel luglio 2012, sull’Osservatore Romano, confessa che tra le dimensioni umane più profonde del suo settennato «c’è stato proprio il rapporto con Benedetto XVI. Abbiamo scoperto insieme una grande affinità, abbiamo vissuto un sentimento di grande e reciproco rispetto». Quando il Pontefice viene contestato all’Università Sapienza, Napolitano condanna a sorpresa quell’atto sulle pagine di Repubblica, definendolo inammissibile, offensivo, intollerante, antistorico. È in questo passaggio che si comprende la sua «laicità inclusiva», capace di riconoscere «il riferimento dei valori umani e cristiani» come «patrimonio del popolo italiano». Le dimissioni di Benedetto XVI le commenterà commosso concedendo un’intervista televisiva: «Grande rispetto e ammirazione, gesto non facile, decisione generosa e responsabile che mette in evidenza una visione umana della sua altissima missione». Un gesto che trova una eco al momento delle sue stesse dimissioni: «Ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono, e dunque di non esitare a trarne le conseguenze». Nella sua visita al Quirinale, Papa Francesco gli ricorda la natura della missione che essi condividono: «governare realtà complesse nel continuo tentativo di unire». E il 22 novembre 2014 il Presidente ha voluto vedere il Papa per «un incontro privato e riservatissimo» prima di congedarsi.

Nell’intervento di Assisi sul dialogo tra credenti e non credenti, ancora, Napolitano incastona le perle della sua vita spirituale e del suo personale modo di argomentare la fede. In quel discorso,del 5 ottobre 2012, poco noto, cita Benedetto Croce, che in una lettera ad Alcide De Gasperi del 1949 scrisse: «Che Dio ti aiuti nella buona volontà di servire l’Italia e di proteggere la sorte pericolante della civiltà, laica o non laica che sia». Napolitano commenta la vita dopo la morte facendo proprie le parole di Bobbio nel De Senectute: «Quando dico che non credo alla seconda vita […] non intendo affermare nulla di perentorio. Voglio dire soltanto che mi sono sempre parse più convincenti le ragioni del dubbio che non quelle della certezza». Le ragioni del dubbio su quelle della certezza, come dice anche Napolitano: «Personalmente, ho avuto un’educazione religiosa, ho attraversato cioè tutti gli anni dell’adolescenza nei sacramenti e nei riti della religione cattolica, che era la religione di mia madre e che era la religione che si insegnava a scuola. Ma mi sono distaccato, come un po’ diceva Bobbio, da una pratica che di per sé non garantiva la risposta agli interrogativi “ultimi”, e mi sono calato interamente in un’altra dimensione di vita — politica, culturale, istituzionale — che prescindeva dal porsi quelle domande. La questione vera è proprio il non aver avvertito l’urgenza di quegli interrogativi anche per un lunghissimo periodo. Poi ho ricevuto stimoli da incontri e conversazioni con personalità di autentica fede. Ricordo, per esempio, l’impressione che mi fece La Pira […]. Ci si può chiudere nella convinzione, o constatazione, che non si è stati toccati da “un lume di grazia”, e chiudere il discorso. E invece il discorso non dovrebbe finire lì».

La sua eredità

Napolitano ha sempre coltivato due chiare prospettive. La prima è lo sguardo all’Europa, con un rapporto molto saldo con l’Unione europea e, in generale con lo spirito europeista. «Senza Europa non ci può essere l’Italia» è, in sintesi, la tesi di Napolitano. Nei suoi discorsi ha più volte sostenuto che l’Italia si riconosce in relazione all’Europa, a un vincolo esterno, altrimenti le risorse interne non bastano più per tenere insieme il Paese. Restare attaccati al cuore dell’Europa per non affogare negli abissi del Mediterraneo è l’immagine che Napolitano consegna al Paese e che sviluppa in questo modo il pensiero di Altiero Spinelli.

La seconda eredità che Napolitano consegna all’Italia sono le riforme. Quando il 20 aprile 2013 viene rieletto al sesto scrutinio con 738 voti, davanti al Parlamento riunito in seduta comune richiama i partiti alla loro responsabilità: «Alla richiesta di riforme e rinnovamento non si sono date soluzioni soddisfacenti. Hanno prevalso contrapposizioni, calcoli di convenienza e lentezze». I parlamentari lo interromperanno con diversi applausi, suscitandone la palese irritazione, ma lo lasceranno solo. Non si oppongono alla sua proposta, ma semplicemente la ignorano. Eppure, nel pensiero di Napolitano le riforme non vanno fatte per restaurare la facciata delle istituzioni, ma per trovare un nuovo rapporto tra Stato e cittadini, tra rappresentanti e vita democratica. Le riforme poi possono essere, secondo lui, sostenute solamente con una legge sui partiti e con una nuova legge elettorale, anch’esse disattese.

Su questo punto Napolitano esce sconfitto. Ma la sua dottrina potrebbe trovare nuova linfa, rigenerandosi nel cammino di altre tradizioni e realtà, in fondo ad essa non così distanti.

 

Fonte foto: https://presidenti.quirinale.it