Il dibattito politico-economico nazionale di questi giorni ruota intorno ad un interrogativo: il nostro Paese sta perdendo il treno del PNRR? L’allarme, inizialmente proveniente da organismi ed istituzioni “tecnici” e “terzi”, è ormai fatto proprio anche dal Governo, che per bocca del ministro Fitto ha recentemente messo nero su bianco come, se tutto dovesse rimanere invariato, molti progetti fra quelli inclusi nel – e finanziati dal – Piano non saranno realizzabili entro la scadenza del 2026. I ritardi sull’attuazione del PNRR rispecchiano e replicano quelli osservabili nello svolgimento della programmazione europea 2014-2020, messi in luce ancora una volta anche dallo stesso ministro per gli Affari europei, il Sud e le politiche di coesione, nel corso di un’audizione innanzi alle Camere tenutasi lo scorso 15 marzo. Nel frattempo, la terza e più recente tranche di erogazioni a valere sulla RRF, ossia il fondo che “alimenta” i Piani nazionali di ripresa e resilienza, per una cifra di circa 19 miliardi e mezzo di euro, è (da più di un mese) “bloccata” dalla Commissione europea, in attesa, di “ulteriori valutazioni” su alcuni snodi problematici.
Il dibattito su come evitare (bisogna riuscirci a tutti i costi) di far deragliare il gigantesco convoglio PNRR è aperto e non sarà oggetto di queste poche righe. Allo stesso modo, non si tenterà l’ennesima analisi sulle responsabilità delle attuali criticità. Colpisce, però, che quasi tutti i commentatori e i protagonisti politici abbiano puntato il dito, fra i “colpevoli” certi dell’affanno nell’attuazione del Piano, sulla Pubblica Amministrazione.
La critica agli apparati amministrativi avrebbe tutti i titoli per essere considerata, non solo nel nostro Paese, un genere letterario a sé. Semper reformanda, la burocrazia è stata oggetto di analisi feroci e rappresentazioni malevole praticamente fin dal suo apparire, in forma embrionale, insieme con le prime manifestazioni della modernità politica. Se la Pubblica Amministrazione – nel vero senso del termine – è un lascito dell’età delle grandi rivoluzioni e si lega indissolubilmente all’affermazione del costituzionalismo e dello Stato di diritto, i burocrati esistono da ben prima: e già nel tardo Medioevo, all’epoca dei primi impulsi attraverso i quali la monarchia di Francia emerse come soggetto capace di imprimere un movimento di verticalità e accentramento agli apparati pubblici, l’antica nobiltà di spada, spossessata del proprio tradizionale monopolio dei posti di potere da una nuova classe di giuristi-collaboratori del sovrano, ridicolizzava i rivali definendoli spregiativamente robins. Il gioco di parole univa la caratteristica del portare la robe (ossia la toga) al diminutivo del nome Robert, che in francese antico e medio designava per antonomasia lo sciocco e tronfio “villano rifatto”.
Da allora e fino ad oggi, si rincorrono i refrain: la burocrazia ora è troppo accentratrice, ora troppo decentrata; ora troppo potente, ora troppo fragile; sempre, invariabilmente, rigida e distante dai bisogni del cittadino, prevaricatrice, popolata di pigri e cialtroni, corrotta, inefficiente, incomprensibile per ingannare i poveri Renzo Tramaglino di questo mondo.
Da qualche decennio si sono aggiunte, a questi topoi, le ricette di riforma, che, perlomeno in Italia, e perlomeno in ciò che raggiunge il vasto pubblico, sembrano a loro volta sclerotizzate su assi immutabili dagli anni Ottanta, tutti presi di peso, e senza adeguata contestualizzazione, da vetuste retoriche aziendaliste: managerialità; innovazione; meritocrazia; semplificazione: queste le parole d’ordine.
Quasi del tutto fallimentari si sono però rivelati i tentativi di calare queste etichette nella vita dell’ordinamento, mentre sembrano ancora largamente inascoltate le voci degli studiosi più autorevoli (si pensi, solo per fare due esempi specifici tolti da sistemi di pensiero e discorsi ben più vasti sviluppatisi negli anni, all’analisi di Guido Melis sulla progressiva dispersione delle competenze tecnico-specialistiche un tempo custodite dai corps d’Etat, o alla nota e netta presa di posizione di Sabino Cassese contro gli effetti deleteri della malaccorta trasposizione in salsa “nostrale” del c.d. spoils system, tra l’altro ormai quasi del tutto accantonato nei suoi ambienti di nascita, quelli anglosassoni).
È importante sottolineare che, fra le occasioni perse della stagione del PNRR, rischiamo di dover annoverare anche quella di impostare, finalmente, un discorso serio sull’amministrazione pubblica. È senz’altro vero che, come scrivono in molti, la P.A. è arrivata “impreparata” all’appuntamento con il Piano. Ma va detto con chiarezza che questa impreparazione è forse in (buona) parte anche il risultato di conati riformatori che non hanno mai rimesso in discussione scelte metodologiche obsolete.
In particolare, da tempo e da più parti si erano messi in guardia i ceti politici dai pericoli di una “illusione tecnocratica” (per riprendere l’efficace formula di Lorenzo Castellani nel recente L’ingranaggio del potere) che vede nell’adesione acritica a un modello di “centralismo manageriale” l’unica soluzione possibile per mettere gli apparati amministrativi in grado di resistere all’urto delle trasformazioni dell’era digitale e della globalizzazione. Si tratta, a ben vedere, di un completo paradosso, che conduce all’eclissi definitiva del “pubblico” e al tramonto di una idea di amministrazione come braccio e strumento della funzione di integrazione sociale dello Stato, mentre assume come dato inevitabile e indiscutibilmente positivo una (invece assai discutibile e tutta da dimostrare) ancillarità degli apparati pubblici al perseguimento dell’interesse economico, nella sua declinazione, beninteso, tardo-capitalista e neoliberista.
L’efficienza del pubblico è cosa ben diversa dall’efficienza del privato; la Techne di cui è portatore chi cura il bene comune concreto non è paragonabile a quella di chi punta a massimizzare un profitto particolare; l’abilità organizzativa che si richiede a un manager pubblico non può essere la medesima che è richiesta a un dirigente d’azienda.
Se si volesse davvero rendere più “preparata” la burocrazia, bisognerebbe al contrario lavorare proprio su “quel che resta” (per riprendere un amaro, ma per molti versi ficcante, articolo del 2019, ancora di S. Cassese) dell’Amministrazione Pubblica, ma in quanto Amministrazione Pubblica: nella sua continuità che, come pure è stato detto, custodisce elementi di pregio. Ritornare, in un certo senso, alle costanti che definiscono la burocrazia moderna come elemento essenziale per l’affermazione dei meccanismi della democrazia, e rigenerarle per aprirle a una diversa relazione con una realtà istituzionale divenuta assai complessa.
Alcuni spunti concreti possono trarsi su diversi fronti.
Si potrebbe, ad esempio ripensare la dirigenza pubblica. Essa non è diventata quella virtuosa “cerniera” fra amministrazione e politica che gli ideatori s’immaginavano, ma, al contrario, è assediata da forze che la schiacciano: da un lato, una (bassa) politica onnivora che usa le leve delle premialità e della precarietà degli incarichi, spesso forzando anche le regole del loro conferimento, per ingerirsi in decisioni gestorie; dall’altro, un pressoché inevitabile deterioramento della qualità delle strutture subordinate, che non si vedono (giustamente) in continuità con i superiori, e, non trovando reali possibilità di sviluppo personale e motivazioni in una struttura “a compartimenti stagni”, spesso disperdono le loro potenzialità. È chiaro che, in un simile scenario, si moltiplicano pure i fenomeni di fuga da responsabilità che spesso, e a buon diritto, appaiono ingestibili: ed è, evidentemente, un rimedio peggiore del male quello di quando in quando percorso dal legislatore che, con l’intento malcelato di ampliare ancor di più la sfera di impunità delle élites decisionali, finisce col de-responsabilizzare l’intero plesso amministrativo.
Bisogna, poi, che l’Amministrazione torni attrattiva per giovani provenienti da saperi e percorsi formativi diversificati, e non sia solo la scelta, spesso residuale, di laureati in giurisprudenza che poi, paradossalmente, sono spinti dai modelli culturali imperanti a disprezzare e svalutare la propria stessa cultura di origine, perché non abbastanza “smart”, formalistica, inchiodata a stili e retoriche del passato. È vero il contrario: il diritto è l’impalcatura portante dell’amministrazione in senso moderno; ma attraverso gli argini della cultura giuridica devono poter fluire le forze vive delle conoscenze scientifiche, tecniche, settoriali. In questo senso, non è più rinviabile una riflessione di ampia portata sui meccanismi di reclutamento e sulle forme di inquadramento nella P.A. (il PNRR doveva essere la sede per aprirla, ma, neanche a dirlo, le nuove assunzioni restano al palo…). Il concorso pubblico è un principio costituzionale ed è anche, ed in primo luogo, un principio giusto: ma cosa conserva dello spirito del precetto costituzionale l’ “inferno degli esami” nel quale precipitano ogni anno decine di migliaia di giovani laureati, spinti a cannibalizzare la loro preparazione universitaria nelle formule meccaniche che servono per superare selezioni affidate al caso, a logiche semi-misteriche, a meccanismi e tecniche che privilegiano i più abbienti e chi può dedicare tempo a costosi corsi privati di preparazione?
Ancora, e forse in primo luogo, occorre lavorare su una vera cultura dell’amministrazione pubblica, che possa far sentire chiunque occupa un posto nei molti livelli e articolazioni della macchina burocratica come parte di una comunità di senso e di scopo. Ridare dignità al lavoro pubblico, sostituendo a una in-cultura “tossica” del merito come esito di una competizione feroce – sempre più rigettata dalle nuove generazioni – un sentire diffuso di dignità del servizio e di orgoglio del lavoro ben fatto.
Si tratta di problemi vasti e nessuno di essi potrà mai essere affrontato in tempo per il 2026. Ma la storia recente insegna che le soluzioni emergenziali (nella nostra materia: affastellare commissariamenti, organi straordinari, superfetazioni strutturali, competenze eccezionali, ordinamenti provvisori) sono solo un’ottima scusa per perpetuare l’immobilismo. È proprio quando le scadenze premono che bisogna alzarsi e rinnovarsi nel profondo per sapervi andare incontro.